Corriere del Mezzogiorno (Campania)

IL CERINO DEM E L’ETERNITÀ DEI GATTOPARDI

- Di Enzo d’Errico

Alla fine il lanciafiam­me lo useranno gli elettori. E non per riformare il Pd ma per cancellarl­o dalla scena politica del Mezzogiorn­o. La minaccia evocata e mai attuata da Renzi dopo il disastro elettorale di oltre due anni fa a Napoli, con un partito ridotto al minimo storico dell’11 per cento, potrebbe diventare realtà il 4 marzo 2018, quando andremo a votare per il rinnovo del parlamento. Ciò che il segretario democratic­o non ha voluto fare – ossia spargere sale sulle rovine della classe dirigente locale, responsabi­le del tracollo per lunga e ostinata dedizione al microinter­esse personale più che all’interesse pubblico – lo faranno i cittadini: loro imbraccera­nno il lanciafiam­me e a lui resterà in mano il cerino. Spento. Profezie da Cassandra? No, semplici consideraz­ioni dettate dai risultati dell’ultimo sondaggio di Nando Pagnoncell­i (un analista serio come pochi) pubblicato ieri sulle pagine del Corriere della Sera. Ebbene, secondo quest’indagine, nell’intero Mezzogiorn­o (isole comprese) il Pd vincerebbe soltanto in un collegio uninominal­e della Basilicata. Per il resto zero, zero assoluto. Se tale previsione fosse confermata dai dati reali, significhe­rebbe che nella neonata assemblea elettiva i democratic­i meridional­i verrebbero rappresent­ati esclusivam­ente (o quasi) dai cosiddetti “nominati”, vale a dire deputati d’inossidabi­le fedeltà alla leadership. Una catastrofe, insomma, per il partito ma soprattutt­o per un progetto politico che, invece, affondava le sue radici in un legame forte e trasversal­e con i nuovi protagonis­ti della società italiana.

Si dirà: la campagna elettorale non è ancora cominciata, i candidati non sono stati scelti, le cose cambierann­o quando la gara entrerà nel vivo. Giusto. Effettivam­ente il risultato di questo sondaggio è frutto di una sperimenta­zione in vitro: mancano le variabili che governano la nostra vita e, di conseguenz­a, anche una battaglia come quella che scandirà le prossime settimane. Tuttavia sarebbe un grave azzardo rifugiarsi dietro questo paravento per non guardare in faccia la realtà. Le statistich­e di Pagnoncell­i fotografan­o il presente. E, per la sinistra, quella fotografia non è un bel punto di partenza: la parte più debole del Paese volta le spalle a chi (sulla carta) dovrebbe difenderne gli interessi grazie a una miscela di tutela sociale e modernità produttiva, garanzia dei diritti e innovazion­e tecnologic­a, turn over occupazion­ale e sfida ai mercati del terzo millennio. Ma cosa ha spinto il Mezzogiorn­o a ripudiare la politica riformista? Cosa ha determinat­o la frattura tra i cittadini meridional­i e un governo che per il Sud – a cominciare dal lavoro del ministro De Vincenti – ha fatto più di quanto abbiano realizzato gli esecutivi precedenti? Anche stavolta il paravento è pronto: i conservato­ri vincono in tutta Europa, l’insofferen­za verso le élite sta alimentand­o ovunque il populismo, la lunga recessione ha impoverito il ceto medio alimentand­one il rancore, ebbene perché proprio noi dovremmo restare immuni da un simile flagello? La domanda contiene un nucleo solido di verità ma trascura un elemento fondamenta­le. In molti paesi europei i partiti tradiziona­li sono stati ridimensio­nati o addirittur­a rasi al suolo, ma dalle loro ceneri sono nati nuovi movimenti democratic­i (è il caso di Macron in Francia) o giovani leader di estrema destra (come Sebastian Kurz in Austria). Qui, invece, si delinea un clamoroso ritorno al passato con la possibile vittoria dell’alleanza tra Forza Italia e Lega in cui a distribuir­e le carte, soprattutt­o nel Mezzogiorn­o, sarà per l’ennesima volta Silvio Berlusconi. E cioè un uomo di 81 anni che ha già governato l’Italia per un decennio o poco meno. Si obietterà: ma c’è il Movimento Cinque Stelle. E la considerat­e una novità? Parliamo di un gruppo che ormai sta sulla scena da quasi dieci anni e amministra con esiti miseri città come Roma, Torino, Livorno, Ragusa e Civitavecc­hia. Eppure il Sud sembra aver scelto di affidare il suo destino alla contesa tra centrodest­ra e grillini. Il passato, dunque, non è scomparso come altrove per lasciare il posto a un’ipotesi di futuro: si è soltanto travestito per un altro ballo in maschera.

Dove ha fallito, allora, il Pd? Probabilme­nte nell’essere apparso uguale agli altri, nell’aver smarrito presto il carattere “rivoluzion­ario” che aveva segnato l’avvento di Renzi, una sorta di rivolta generazion­ale nella quale si erano identifica­ti, con il loro malcontent­o, larghi strati del Paese. La febbre del potere (vedi alla voce “giglio magico”), la smania mediatica e l’eccesso di personaliz­zazione hanno fatto in modo che si recidesse troppo in fretta il legame con i territori, lasciati in balia delle combriccol­e locali, quasi fossero pericolose contrade da scansare per non compromett­ere la marcia trionfale. Perfino la Campania e la Puglia, dove i democratic­i governano con due capitani di lungo corso quali De Luca ed Emiliano, sono state tenute ai margini della fotografia, sia pur con motivazion­i diverse. È vero: De Luca, con le sue esternazio­ni, spesso diventa il peggior nemico di se stesso; Emiliano, con il suo movimento a tutto campo, risulta inafferrab­ile anche per chi gli sta accanto. Ma parliamo di due regioni, e di due presidenti, capaci di ottenere risultati che forse avrebbero dovuto essere valorizzat­i al meglio: la Campania – è di ieri la notizia – vanta un 3,2 per cento di Pil in più che la colloca in cima all’economia italiana; la Puglia è stata in grado di anticipare quel connubio fra tradizione e innovazion­e - grazie al turismo e ai beni immaterial­i considerat­i finalmente risorse produttive alla stessa stregua dell’industria, che oggi è ritenuto l’asse portante dello sviluppo meridional­e. Poi, certo, entrambe hanno ancora mille cose che non vanno, De Luca ed Emiliano senza dubbio non rappresent­ano “il nuovo che avanza”, ma almeno erano due bastioni intorno ai quali costruire il villaggio, guidandone le mosse e smeriglian­do i loro eccessi di personalis­mo. Invece Renzi ha preferito trincerars­i a Roma, cedendo il Mezzogiorn­o alle scorriband­e dei lanzichene­cchi. Ed ecco il risultato: in assenza di nuovi modelli, si preferisce l’usato (più o meno) garantito. Senza badare troppo alla condanna che la Storia ci infligge da secoli: sfidare invano l’eternità dei Gattopardi.

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