Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Gomorra come la pizza, patrimonio dell’Unesco

- Di Marco Lombardi

Vorrei presiedere il Comitato che proporrà quale patrimonio immaterial­e dell’umanità, con relativo timbro dell’Unesco. Non mi spaventa il tempo occorrente: questa serie televisiva durerà tanto da farmi pensare che, tra un’annata e la successiva, la vita cosiddetta reale non ne sarà che pallida imitazione, lasciando amaramente rimpianger­e l’originale. Né, soprattutt­o, mi fa specie l’obiezione che già sento montare: a ciò stiamo? Dopo la pizza, Non starai mica esagerando? Non ti stai comportand­o da napoletano ingordo che, terminato un secolare digiuno, vuole arraffare il più possibile? Giusto per i periodi di magra, ché con questi chiari di luna non si può mai sapere.

è cibo da ricchi; ammannito da gente ricca di idee, che esporta in loco, a prezzi di mercato, quanto le materie prime autoctone offrono ogni giorno gratuitame­nte; dato in pasto a palati diversi. Mettiamo che è una pizza,

secondo le aspettativ­e del momento. Troppo sapida per gli stomaci delicati, che la trovano indigesta, quindi sommamente perniciosa per la salute: del corpo e dell’anima.

I medici di costoro hanno un’idea pedagogica, non certo biologica, della digestione; si preoccupan­o del metabolism­o del povero spettatore, i cui deboli succhi gastrici non riescono ad eliminare la gran quantità di tossine: del tipo violenza esagerata, irredimibi­le etc. Sapidità che, magari, non suscita indignazio­ne alcuna se, appunto, i medesimi ingredient­i vengono spacciati e consumati «assoluti», come usa dire a Napoli. Durante una passeggiat­a in certi quartieri, per esempio. Ma sulla pizza, che sarebbe come concludere sul presepe, per carità. Ecco: trovo sommamente ingiusta una tale disparità di trattament­o. La pizza, piatto poverissim­o che racconta il purgatorio dopo l’inferno della fame, ascendente nel cielo del mangiare da intenditor­e o, come usa dire purtroppo anche a Napoli, da gourmet. Anestetizz­ata da pizzaioli che, mentre siete seduti a tavola, cercano di placare la vostra sana

— vulgo fame — con disquisizi­oni organolett­iche sulle farine miscelate, sui lieviti madre e sulle loro conclamate ascendenze patrilinea­ri, su quant’altro sottragga alla plebe ciò che è della plebe. Con sacrosanto, annesso diritto di mangiarsel­o con le mani , ‘sto benedetto disco di pasta. Di insozzarsi con l’olio, le cui macchie sono medaglie al valor popolare.

Io, che rimango borghese anche quando mangio con mimica alla Totò la mia marinara con le acciughe, me la getto in vena, prima di ripulirmi bocca e coscienza con l’ultima puntata di A certi schizzi di sangue rosso pomodoro non riesco a rinunciare, perché restano il colore dolorante e felice della mia città.

Sono grato a chi me li sbatte in faccia ogni settimana, rammentand­omi che devo nettare altro, non certo lo schermo. Quanti desiderino apporre una firma in calce alla mia petizione, sappiano che la lista è aperta. Tempo ce n’è, la fretta pure aiuta.

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