Corriere del Mezzogiorno (Campania)
UNA CITTÀ CON IL FUTURO «IPOTECATO»
Efu così che si scoprì che la camorra esisteva a prescindere dalla fiction. Che i traffici illeciti proseguivano nonostante le pile di libri invenduti. Che il controllo del territorio era un affare più serio di guardie e ladri. Che Saviano aveva bisogno di de Magistris quanto de Magistris aveva bisogno di Saviano. E fu così, d’altronde, che si capì che il turismo non dipendeva dalle delibere comunali. Che la vivibilità non obbediva alla volontà degli assessori. Che non era affatto un paladino del trasporto pubblico chi non era in grado di farlo funzionare. Fu così, insomma, che ci si accorse che le narrazioni erano frottole sotto forma di argomenti razionali. Utili a liberare la politica dalle proprie incombenze. La più generale fra tutte: il dovere di fare i conti con la realtà della città intera. Realtà caotica quella di un posto come Napoli. Ma non per questo imperscrutabile. Esistono dei modi per fare i conti con la realtà. Tra i tanti possibili, uno consiste nell’osservarne le tendenze, ovvero i fenomeni di cui è possibile fornire una rappresentazione sulla base di quanto registrato nel passato, alla luce di quanto lasciato intravedere dal presente. Gli antichi si affidavano agli astri. I moderni alle statistiche. Con significative eccezioni e alterne fortune. Pochi giorni fa, i servizi statistici del Comune di Napoli hanno divulgato i risultati di alcune indagini che riguardano le trasformazioni della popolazione residente in città, dal 2010 al 2016. Tra le tendenze individuate, spicca quella all’invecchiamento.
La diminuzione della natalità e l’emigrazione giovanile sono solo due dei fattori che concorrono a fare di Napoli una città meno giovane di prima, per quanto ancora più giovane della maggior parte delle città italiane. A compensare questa tendenza, non basta l’aumento dei residenti di cittadinanza straniera, per lo più di giovane età e con tassi di fertilità superiori alla media. Se si considerano poi i livelli di disoccupazione, la precarizzazione del lavoro e l’erosione del welfare, uniti all’abbattimento del livello dei servizi erogati durante gli anni dell’amministrazione de Magistris, non è difficile capire come la città diventi sempre più vulnerabile. Più vulnerabile, infatti, è la stragrande maggioranza della città, che ha sempre meno soldi per pagare servizi essenziali sempre più scadenti e costosi.
Invece, più ricca diventa quella minima parte della città che riesce a sfruttare la deregolamentazione delle rendite immobiliari e le attività legate all’indotto turistico. È noto che la polarizzazione sociale, se non combattuta, finisce con l’alimentare la violenza cieca da cui nessuno può dirsi al riparo. Pertanto, chi dovrebbe governare i processi e non lo fa si schiera automaticamente a favore dei più forti. E tutti gli altri pagano l’incapacità della politica di riorientare il presente.
È il caso di riflettere sul fatto che l’unico orizzonte certo per i napoletani è che l’enorme debito del Comune ha ipotecato i prossimi vent’anni di governo della città. Meglio il dissesto? Ad oggi, no; a patto che dormano le Sibille, tacciano le Cassandre, e si elaborino strumenti utili a distribuire il debito (di fatto inestinguibile) secondo una logica di maggiore equità sociale. Tuttavia, se c’è una condizione specifica che dota i politici moderni di un potere ancora più assoluto di quello degli antichi sovrani, è la deresponsabilizzazione garantita loro dallo scadere del mandato. La salvezza dei politici risiede nella possibilità di scaricare impunemente sul futuro i problemi del presente. E in ciò, de Magistris è identico ai suoi predecessori. Anzi, ora che il suo roboante «arrevotiamo» si è ridotto a un impercettibile «io speriamo che me la cavo», la città pare un po’ più spaesata di prima. Sospesa. Attonita. Eppure degna che il solstizio d’inverno presagisca il migliore dei futuri possibili. Perché quelli impossibili, benché narrati a ragion veduta, sono già passati tutti. Senza lasciare alcuna traccia.