Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Meglio una città velata che una Grande Gomorra
Con «Napoli velata» di Ferzan Ozpetek, che uscirà appena dopo Natale, si chiude una stagione di film d’autore ambientati nella nostra città. Un trittico, se si considerano anche lo straordinario «Ammore e malavita» dei Manetti Bros, e il bellissimo «Gatta Cenerentola» della premiata ditta Rak-Cappiello Sansone & Guarnieri. Senza contare l’ultima serie di Gomorra, di nuovo baciata dal successo e perseguitata dalle polemiche. Diciamo subito che l’opera dell’acclamato regista non regge il confronto con i tre prodotti succitati. Per trama, recitazione, originalità, il film di Ozpetek non si colloca neanche tra le sue prove migliori. E però ciò che lo distingue dagli altri è che non si tratta solo di un film ambientato a Napoli, o centrato su Napoli. È un film che ha letteralmente per protagonista Napoli. In un duplice senso. Perché l’esilità dei personaggi finisce per mettere al centro la città in cui si muovono, e se lo spettatore viene assalito dalla noia si riscuote ogni volta che la macchina da presa si sposta sui paesaggi, le vie, le piazze, i panorami, le case, gli edifici, le scale, le facce di questa capitale. Ma anche perché la protagonista, interpretata da Giovanna Mezzogiorno, altro non è che una metafora di Napoli, un po’ pazza, molto passionale, con un passato di gravi traumi e una disperata voglia di amare, sempre alle prese con la morte (di mestiere fa le autopsie) ma attaccata alla vita con le unghie e con i denti. Ciò che però merita una riflessione «politica», se così vogliamo dire, è che il film mette in scena una Napoli profondamente diversa dal set per storie di gangster in cui è stata negli ultimi anni trasformata.
A parte un paio di concessioni alla sua anima dionisiaca (la scena della «figliata dei femminielli» e della «tombola vajassa»), per il resto è un volto sorprendentemente apollineo quello che viene mostrato di Napoli. Un volto di assoluta bellezza. Carico di storia, di arte, di cultura. Ma anche di case magnifiche e opulente, di design, di stile, di gusto, di eleganza. Da quanto tempo non vedevamo un dramma borghese ambientato nella nostra città, girato tra l’altro nella stessa casa che appariva ne «L’oro di Napoli» di De Sica e in «Viaggio in Italia»di Rossellini? Da quanto tempo in un film su Napoli erano assenti le livide periferie della criminalità e dello spaccio di droga, o la casbah brulicante di malfattori e baby gang? Questa è una storia di gente per bene, ben vestita, benestante, raffinata, con la passione del teatro e dell’arte, che ha contatti solo sporadici e mediati con l’inferno che la circonda, per esempio attraverso i cadaveri che approdano alla morgue dove opera la protagonista.
Non sembri strano enfatizzare questo volto di Napoli proprio mentre la città è scossa dall’ultimo sbocco di violenza demoniaca, dall’estrema esibizione di ferocia ai danni di un ragazzino innocente, quell’Arturo quasi ammazzato a via Foria così, per gioco. Naturalmente il sindaco de Magistris esagera quando incolpa Saviano, accusandolo di aver creato con Gomorra uno standard maledetto che provocherebbe fenomeni di imitazione tra i giovani. Ma non c’è dubbio che l’estetica conti molto nel costruire l’etica di una comunità, perché bellezza chiama bellezza e, come avevano capito per tempo i teorici della «tolleranza zero», abbandono e squallore chiamano squallore e abbandono. Da sempre nella nostra città assistiamo esattamente a questo conflitto tra violenza e cultura, tra barbarie e civiltà. Ed è sorprendente come nell’aggressione di via Foria esso si sia riproposto con tanta forza simbolica: da un lato i ragazzini tredicenni che maneggiano il coltello per farsi uomini, dall’altro uno studente di liceo che aveva vinto un certamen pirandelliano, un diciassettenne che aveva deciso di rendere la sua vita più bella attraverso il sapere.
Ecco perché riscoprire in una sala cinematografica che Napoli può essere lo sfondo anche per un dramma psicologico o per una vicenda di sentimenti, invece che sempre e soltanto per la ferocia e la sopraffazione, è qualcosa che di questi tempi ci ha sollevato. La nostra città non deve diventare un brand globale della malvagità, una Medellin europea. Dovremmo tutti riprendere a cercarvi anche tutto il resto che la abita: la bellezza, le passioni, l’intelletto, le professioni, le gallerie d’arte, gli interni familiari, perché Napoli si può vivere anche come una Parigi mediterranea.
In fin dei conti è questo che ci dice il film di Ozpetek: l’anima vera di Napoli si vede meglio se attraverso il velo che la ricopre, come accade col volto del Cristo velato. Il suo lavoro finisce così per essere una sorta di «grande bellezza» partenopea, idealmente contrapposto a quella «grande Gomorra» che sembriamo esser diventati. Non può che farci bene.