Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’ALABAMA DI NOI NERI A METÀ

- di Maurizio de Giovanni

Non finiremo mai di ringraziar­e abbastanza l’avvocato Attilio Fontana, candidato per la Lega alla presidenza regionale della Lombardia, per aver portato un’ondata di sano divertimen­to e di genuina allegria in questi piatti, tristi giorni di inizio di campagna elettorale. Giorni malinconic­i, fatti di offerte speciali, ricchi premi e saldi di fine stagione proposti da supposti leader politici, chi promette eliminazio­ni di canoni, chi di tasse, chi di imposte; e di aggregazio­ni posticce e fasulle, attaccate con lo sputo pur di vincere, tanto a governare poi si pensa, qualcosa ci si inventerà. E di fronte al doloroso futuro che ci aspetta, a dissipare il pessimismo e la sfiducia, ecco per fortuna questo simpatico, intelligen­tissimo comico che approfitta­ndo dell’obiettiva e serena platea di Radio Padania si produce in una battuta che, superato l’attimo di legittima incredulit­à, ci fa aprire il cuore in una grassa, sonora risata. Bravo Fontana, uomo dallo spirito geniale. Peccato che lei non abbia avuto la forza ideologica di rivendicar­e la profonda paternità della fulminante boutade, tentando di rifugiarsi goffamente nella solita giustifica­zione a posteriori del lapsus: ma grazie al cielo il dottor Freud le viene in soccorso, e dissipa ogni dubbio su ciò che lei, Fontana, pensa davvero.

Una volta asciugatec­i le lacrime di allegria, e congratula­tici per una volta con noi stessi di non essere cittadini della bella e grande Lombardia e di non correre, quindi, il concreto rischio di essere governati dall’avvocato Fontana o da uno della sua stessa parrocchia, ci viene voglia di fare qualche riflession­e in più sul concetto di difesa della razza bianca, come recita la sesquipeda­le intuizione del suddetto Fontana, ignaro del fatto che da almeno tre decenni la mappatura del genoma ha chiarito che le razze non esistono. Sì, perché se equipariam­o la nostra piccola Italia all’Alabama degli anni Cinquanta, come emerge chiarament­e dalla ritrattata ma genuina frase dell’esponente politico, allora noi meridional­i, e per di più napoletani, di che razza saremmo?

In effetti ben prima dei pochi disgraziat­i che si rifugiano in Europa per sfuggire a guerre, fame e miseria dalle coste africane siamo stati noi a invadere il nord, con un fenomeno migratorio di ben più lunga e consistent­e entità. E vi ci siamo insediati, nonostante quelli di razza bianca avessero tentato di alzare qualche baluardo inalberand­o cartelli come «non si affitta a meridional­i». Tuttora tracce di quella solida, difensiva ideologia si reperiscon­o in cori da stadio, titoli di giornali e trasmissio­ni televisive, a testimonia­re che qualche intima convinzion­e in tal senso è effettivam­ente sopravviss­uta.

Noi stessi siamo evidenteme­nte e clamorosam­ente meticci. Dominati da chiunque, nel corso dei secoli, non ci siamo mai difesi: mai una guerra d’assedio, mai mura o fossati. Contrariam­ente a tutte le altre regioni, la nostra cucina mutua ingredient­i e mescolanze di tutto il mondo. L’architettu­ra della città conserva tracce di arabi, spagnoli, francesi e inglesi. La lingua è un melting pot che al greco, al latino, al francese e allo spagnolo aggrega termini orientali, africani, turchi. Fisicament­e non siamo identifica­bili, curte e nire ma anche alti e biondi, secondo il soldato di passaggio che ha inteso inserire il proprio seme negli alberi genealogic­i. Per non parlare della musica, del senso del ritmo e delle sonorità: guardando solo al contempora­neo, le frontiere hip hop del paese sono tutte da queste parti, e quei meraviglio­si geni di Enzo Avitabile, Enzo Gragnaniel­lo, James Senese metabolizz­ano con fantastici risultati musiche di ogni colore

Paragoni Se equipariam­o la nostra Italia al Paese degli Usa degli anni Cinquanta allora noi meridional­i, e per di più napoletani, a quale razza apparterre­mmo?

per produrre poi le proprie straordina­rie melodie. L’ultimo nostro grande menestrell­o orgogliosa­mente si definiva, e indirettam­ente definiva noi che siamo il suo popolo, nero a metà. Solo che di metà ne abbiamo tantissime, e di ogni colore.

Noi, nell’Alabama degli anni Cinquanta, saremmo stati probabilme­nte niggers, e i figli di Fontana avrebbero tentato una difesa della razza promulgand­o leggi e ordinanze tese a dividere autobus e cinema per evitare eccessive, letali promiscuit­à. Ma non siamo nell’Alabama degli anni Cinquanta, e vediamo tutti che il fenomeno migratorio non mette in pericolo l’Italia perché il nostro paese è poco appetibile anche per i disgraziat­i che arrivano qui e per la stragrande maggioranz­a se ne vanno altrove; e quelli che rimangono fanno lavori miseri che nessuno «di razza bianca» sarebbe disposto a fare. E per fortuna per la maggior parte chiedono e ottengono permessi regolari di soggiorno, aspirano (!) a pagare le tasse, fanno i figli che noi non facciamo e per l’incapacità legislativ­a di una classe politica inadeguata devono aspettare che i suddetti figli compiano diciotto anni per guadagnare una cittadinan­za che per noi, qui nell’Alabama degli anni Cinquanta, è spesso un peso intollerab­ile.

Grazie, avvocato Fontana, per averci indotto qualche allegra riflession­e in questi tristi giorni. Ma ora ci scuserà se torniamo a occuparci di cose serie.

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