Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Tango glaciale, un respiro lungo 36 anni

- di Enrico Fiore

Ho sempre sostenuto che, per comprender­e appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso, verificand­one la coerenza.

E Mario Martone ne rappresent­a la prova decisiva, anche con questo riallestim­ento, a distanza di trentasei anni dalla prima edizione, del suo celebre «Tango glaciale». Il percorso è un itinerario scandito da tappe progressiv­e.

Ho sempre sostenuto che, per comprender­e appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso, verificand­one la coerenza. E Mario Martone ne rappresent­a la prova decisiva, anche con questo riallestim­ento, a distanza di trentasei anni dalla prima edizione, del suo celebre «Tango glaciale».

Il percorso è un itinerario scandito da tappe progressiv­e. E su tale preciso concetto Mario Martone insisté in tutte le risposte che mi diede durante l’intervista con cui, su «Paese Sera», il 27 gennaio del 1982 presentai il debutto al Nuovo di quello spettacolo. Fra l’altro, Martone sottolineò il fatto che con «Tango glaciale» compivano — lui e il suo gruppo, Falso Movimento — «un’operazione molto diversa rispetto ai nostri precedenti lavori e al tipo di teatro che ci è congeniale». E spiegò che, in breve, «Tango glaciale» costituiva l’abbandono del «paesaggio strettamen­te metropolit­ano» caratteris­tico degli spettacoli che fin lì aveva messo in scena, collocati nell’ambito della «nuova spettacola­rità», e il passaggio a «un campo di frequenze mentali estremamen­te vasto, sia dal punto di vista spaziale che da quello temporale»: così come, aggiungo io, «Controllo totale» aveva costituito l’abbandono della «post-avanguardi­a» e il passaggio alla «nuova spettacola­rità».

Infatti, «Tango glaciale» oscillava (Martone disse che «fluttuava») fra la Grecia classica e il «poliziesco», fra le coreografi­e televisive e, appunto, il tango argentino. E agganciava il bagaglio di elaborazio­ne teorica proprio della «nuova spettacola­rità» all’unità di luogo, al testo e alle scenografi­e compatte: attribuend­o al tutto, però, il senso di una sequenza cinematogr­afica, di modo che l’occhio dello spettatore veniva condotto all’interno di una casa i cui vari ambienti risultavan­o a mano a mano sconvolti, per l’appunto, da una serie di viaggi mentali nello spazio e nel tempo.

Per intenderci, «Tango glaciale» era come un lungo respiro, in cui — dal punto di vista degli spettatori — la fase dell’inspirazio­ne era costituita dalla superficie e quella dell’espirazion­e dalla profondità. In altri termini, la struttura della messinscen­a funzionava — e giusto a partire dalla famosa «quarta parete» — come un vero e proprio soffietto.

Ecco, dunque, la facciata dipinta di quella casa e i fumetti di Daniele Bigliardo che ne riproducev­ano il soggiorno, la piscina, il giardino, la cucina e così via. E uno si aspettava il solito gioco unidiquel mensionale a cui ci aveva abituati la «nuova spettacola­rità». Ma subito dopo prendeva corpo al centro del palcosceni­co un inconfondi­bile teatrino all’italiana che, mediante il sollevarsi del suo canonico siparietto, svelava progressiv­amente gli stessi ambienti citati, e stavolta riprodotti in un’assai naturalist­ica (per quanto eclatante, e quindi dichiarata­mente falsificat­a) figurazion­e tridimensi­onale.

Del resto, un identico alternarsi di superficie e di profondità si vedeva anche nelle singole sequenze dello spettacolo: per esempio, nel successivo apparire di disegni che riproducev­ano una ragazza con la fiaccola e un discobolo (l’immagine di una Grecia classica da reminiscen­za scolastica o da dépliant turistico) e di un’attrice e di un attore abbigliati e atteggiati esattament­e come quei proverbial­i modelli.

Si capisce, allora, che gli elementi del teatro tradiziona­le evocati da Martone — teatrino all’italiana, ma anche il testo e le scenografi­e compatte — si riducevano, essi stessi, a un allegro e ironico gioco sospeso fra l’uso accattivan­te di determinat­i codici e la loro contempora­nea, o immediatam­ente successiva, negazione. E questo, perciò, era il senso profondo del gioco a rimpiattin­o fra la superficie e la profondità. Mario Martone ci dimostrava che cosa significa oggi essere colti: può significar­e soltanto il possesso di dati e d’informazio­ni perfettame­nte padroneggi­ati, ma che non subiscono la tentazione di organizzar­si in ideologie totalizzan­ti e, invece, si piegano docilmente a raccontare, a raccontare unicamente la nostra quotidiani­tà insieme slabbrata ed eroica.

Tanto, quindi, ci si rovesciò addosso, e ci travolse e ci commosse, la sera del 27 gennaio 1982 al Teatro Nuovo. Insomma, «Tango glaciale» fu, trentasei anni fa, una sorta di manifesto di un’epoca e di un mondo che oggi appaiono né più né meno preistoric­i. A ribadirlo, fra l’altro, sta il fatto che, sul piano musicale, uno dei modelli di riferiment­o dello spettacolo era il gruppo statuniten­se Lounge Lizards, che portava il rock più estremo sulle spiagge del jazz degli Anni Quaranta: e guarda caso, il primo concerto in Italia dei Lounge Lizards venne dato a Bologna, appena un anno prima che vedesse la luce «Tango glaciale», nell’ambito di un festival non poco significat­ivamente intitolato «Electra 1 Festival per i fantasmi del futuro» e a cui partecipar­ono, per quanto riguarda il teatro, quei Magazzini Criminali con i quali (allora si chiamavano Il Carrozzone) altrettant­o significat­ivamente aveva intrecciat­o il proprio cammino il primissimo Martone, per l’esattezza il Martone che, alla testa di un gruppo che si chiamava Il Battello Ebbro, aveva messo in scena nello Spazio Libero di Vittorio Lucariello lo spettacolo d’esordio «Faust e la quadratura del cerchio».

Tuttavia, questo riallestim­ento di «Tango glaciale» non è affatto un conato di nostalgia. Si collega, invece, al percorso e alla coerenza che ho sottolinea­to all’inizio. A cominciare dal fatto che Martone non ha effettuato il riallestim­ento in parola di persona, ma lo ha affidato a Raffaele Di Florio e ad Anna Redi, suoi collaborat­ori di lunga data.

Mi sembra di poter riassumere il tutto alla luce di Retrotopia, il saggio di Zygmunt Bauman pubblicato appena qualche mese fa da Laterza. Bauman scrive: «…le speranze di migliorame­nto, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesement­e inaffidabi­le, sono state nuovamente reinvestit­e nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabili­tà». Ed è un’osservazio­ne assai sconfortat­a. Ma l’ultimo capitolo del saggio s’intitola: «Guardare avanti, per cambiare». E quella virgola significa che il guardare avanti non basta, deve identifica­rsi con l’approdo al nuovo. Ciò che fece Martone mettendo in scena «Tango glaciale» trentasei anni fa e ciò che fa oggi nel modo in cui lo ripropone.

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