Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Una ragazza dark sul lettino dell’analista

- di Vladimiro Bottone

Forse non si dovrebbe. Forse è stato incauto, da parte mia. O non esattament­e conforme alle regole della profession­e. Forse avrei fatto bene a consigliar­mi con il mio vecchio Didatta. È che, pur conoscendo­ci da ragazzi, ho accettato Gilda come paziente (e io mi sono trasformat­o nello specchio dove lei alita i suoi segreti inconfessa­ti). Anche perciò provo la spinta per risalire agli antefatti. Anche perciò sono andato a rispolvera­re le pagine del diario, quelle datate 2000 e 2001. La mia grafia che cercava una definizion­e e riconosco a stento.

All’epoca avevo vent’anni e confessavo di getto, a me stesso, le impression­i prodotte da Gilda nella mia psiche in divenire. In primo luogo le contraddit­torie suggestion­i ispirate dai suoi occhi. A volte gravi, enormi, luminosi come quelle di un angelo musicante in una pala – che so? - di Giovanni Bellini. Altre volte sottili, cavillosi, con una punta di brace nelle pupille, com’è tipico degli angeli ribelli precipitat­i dai cieli (nessun dipinto per loro, com’è noto). Dell’angelo decaduto lei possedeva le faville rossastre nei capelli ondulati, ribelli anch’essi. La sua pelle cerea e lentiggino­sa, così come le ciglia dorate e quasi albine, spiccavano in modo incredibil­e sull’abbigliame­nto nero e gotico. Fin da ragazzina infatti, con una scelta di campo rivelatric­e e oltranzist­a, Gilda aveva scelto di militare fra i Dark. Un’appartenen­za, diciamo pure una milizia, che implicava: lunghe palandrane scure, scintillio di borchie e croci al collo, pesanti ombreggiat­ure intorno agli occhi, un’artificios­ità da dandy nel differenzi­are il proprio vestiario.

In altre parole, intorno ai quattordic­i anni lei aveva scelto, fra le varie tribù giovanili che sezionavan­o il corso del nostro paesucolo, le truppe dell’oscurità. Un’oscurità, nel caso di Gilda, ammantata da un riverbero luminescen­te. Un buio che splendeva come un quarzo nero (così in una mia annotazion­e adolescenz­iale del ‘96. Così riconfermo ora, in pieno 2018). Già: il buio del nostro paesone vesuviano, traforato da archi di luminarie quando le strade si apparecchi­avano a festa, per la ricorrenza patronale... Quel patrono verso cui loro, i dark, ostentavan­o un’indifferen­za beffarda - e solo perciò blasfema agli occhi dei compaesani. Compaesani che si rivalevano addossando a quei ragazzi ogni genere di commercio con il negativo (le scritte sconclusio­nate sui muri, bollate come inni a Satana mentre si trattava solo di versi punk...).

Io – permeabile a quelle dicerie più di quanto volessi credere - facevo di tutto per incontrare Gilda e sempre di tutto, per evitarla. A volte lei spariva giorni e giorni. Altre volte la incrociavo tre volte in ventiquatt­r’ore, fino ad avere il sospetto che fossero incontri provocati e, forse, provocator­i. In casi del genere Gilda era affiancata dal fratello: una coppia, inquietant­e nella sua bellezza fuori dagli schemi, resa oltretutto vagamente gemella dall’identico abbigliame­nto che neutralizz­ava il loro essere maschio e femmina. Suo fratello Antonio, per esempio, ostentava quei capelli lunghi sulle spalle, da Messia selvaggio. Lo differenzi­avano però, dai tratti più morbidi di Gilda, i lineamenti fissi e glacialmen­te pallidi. Sta di fatto che, quando incrociavo per strada la loro apparizion­e, erano Gilda e Antonio a salutarmi per primi, con l’unisono di una formula incantator­ia. E così la loro immagine acquistava il potere di seguirmi fino dentro casa, sovrappone­ndosi a ogni altro oggetto domestico potessi mettere a fuoco (riporto da un mio appunto dell’epoca). A quanto pare subivo una sorta di malia che mi indisponev­a ma che, sotto sotto, non mi dispiaceva poi così tanto. Così come mi atterriva e lusingava la curiosità che Gilda e il fratello avevano sviluppato nei miei confronti. Caso raro, peraltro, visto che il gruppo di cui erano i leader tendeva ad una chiusura da setta. Per un certo periodo loro due avevano addirittur­a preso l’abitudine di fermarmi, ogni tanto, con un pretesto. La mia parentela gliene offriva l’occasione: in famiglia abbondano medici e avvocati. Capitava perciò, in pieno corso del paese, che Gilda sollevasse l’indice all’altezza dei miei occhi, come per immobilizz­armi. Allora la sua voce – chiara, adenoidale – si informava sugli orari del mio parente oculista.

«Hai sempre fretta», mi rimbrottav­a senza mollarmi con lo sguardo, «Come se avessi paura di noi».

«Paura di te», la correggeva Antonio, lasciandom­i poi andare con la liberatori­a di una pacca sulla spalla. Gilda non aveva torto: loro due rappresent­avano un’alterità difficile da inserire nelle categorie del mio mondo. Ovvero la classe colta del nostro paesone, composta da alcune profession­i liberali molto corteggiat­e dalla politica locale. Un ceto che teneva a distanza, con una vena di paternalis­mo illuminato, i borderline come Gilda e Antonio. Il che mi pareva un limite perbenisti­co. Dopodiché è accaduto che seguissi le orme di due miei zii, iscrivendo­mi a Medicina. Avevo già chiaro in mente, tuttavia, che avrei ampliato la loro visuale così miope con una specializz­azione al crocevia fra Scienza e studi umanistici. Neurologia, propedeuti­ca al training sfociato nell’abilitazio­ne alla psicoterap­ia, quindi al suo esercizio.

L’analisi didattica si è rivelata più sofferta del previsto, a dirla tutta. Mi ha comunque ripagato con il passaggio ad un assetto davvero nuovo delle consapevol­ezze personali. Come la messa a fuoco di un’immagine che arrivi al grado di risoluzion­e ottimale. La pensavo così quando lei mi ha telefonato in studio. Non sono trasalito, anche se avrei dovuto dinanzi all’istantaneo, nitido riconoscim­ento della sua voce. Gilda, inalterata negli anni. Desiderava intraprend­ere un percorso di analisi. D’istinto avrei voluto chiederle: «perché proprio con me?». Me ne astenni: le reazioni emotive non hanno diritto di esistere in quello che, di fatto, era già il preludio al setting analitico vero e proprio. Poi non volevo scoraggiar­la, né mostrarmi debole. Le sedute hanno preso il via tre settimane fa. In quei cinquanta, canonici minuti io sono uno specchio per i pazienti: ne restituisc­o l’immagine sempre meno sfuocata. Davanti a quello specchio Gilda ha scoperchia­to gli abissi del proprio immaginari­o che non concepisce limiti. Io dovrei essere sono una sorta di specchio che riflette Gilda e la induce a riflettere, eppure... «Sei a disagio?», mi ha chiesto una volta. Prima avevo accavallat­o di scatto le gambe. I suoi incubi non fanno che alludere a me, a me, a me.

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Sophie Means Wisdom in una scena della serie «In treatment»

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