Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Una ragazza dark sul lettino dell’analista
Forse non si dovrebbe. Forse è stato incauto, da parte mia. O non esattamente conforme alle regole della professione. Forse avrei fatto bene a consigliarmi con il mio vecchio Didatta. È che, pur conoscendoci da ragazzi, ho accettato Gilda come paziente (e io mi sono trasformato nello specchio dove lei alita i suoi segreti inconfessati). Anche perciò provo la spinta per risalire agli antefatti. Anche perciò sono andato a rispolverare le pagine del diario, quelle datate 2000 e 2001. La mia grafia che cercava una definizione e riconosco a stento.
All’epoca avevo vent’anni e confessavo di getto, a me stesso, le impressioni prodotte da Gilda nella mia psiche in divenire. In primo luogo le contraddittorie suggestioni ispirate dai suoi occhi. A volte gravi, enormi, luminosi come quelle di un angelo musicante in una pala – che so? - di Giovanni Bellini. Altre volte sottili, cavillosi, con una punta di brace nelle pupille, com’è tipico degli angeli ribelli precipitati dai cieli (nessun dipinto per loro, com’è noto). Dell’angelo decaduto lei possedeva le faville rossastre nei capelli ondulati, ribelli anch’essi. La sua pelle cerea e lentigginosa, così come le ciglia dorate e quasi albine, spiccavano in modo incredibile sull’abbigliamento nero e gotico. Fin da ragazzina infatti, con una scelta di campo rivelatrice e oltranzista, Gilda aveva scelto di militare fra i Dark. Un’appartenenza, diciamo pure una milizia, che implicava: lunghe palandrane scure, scintillio di borchie e croci al collo, pesanti ombreggiature intorno agli occhi, un’artificiosità da dandy nel differenziare il proprio vestiario.
In altre parole, intorno ai quattordici anni lei aveva scelto, fra le varie tribù giovanili che sezionavano il corso del nostro paesucolo, le truppe dell’oscurità. Un’oscurità, nel caso di Gilda, ammantata da un riverbero luminescente. Un buio che splendeva come un quarzo nero (così in una mia annotazione adolescenziale del ‘96. Così riconfermo ora, in pieno 2018). Già: il buio del nostro paesone vesuviano, traforato da archi di luminarie quando le strade si apparecchiavano a festa, per la ricorrenza patronale... Quel patrono verso cui loro, i dark, ostentavano un’indifferenza beffarda - e solo perciò blasfema agli occhi dei compaesani. Compaesani che si rivalevano addossando a quei ragazzi ogni genere di commercio con il negativo (le scritte sconclusionate sui muri, bollate come inni a Satana mentre si trattava solo di versi punk...).
Io – permeabile a quelle dicerie più di quanto volessi credere - facevo di tutto per incontrare Gilda e sempre di tutto, per evitarla. A volte lei spariva giorni e giorni. Altre volte la incrociavo tre volte in ventiquattr’ore, fino ad avere il sospetto che fossero incontri provocati e, forse, provocatori. In casi del genere Gilda era affiancata dal fratello: una coppia, inquietante nella sua bellezza fuori dagli schemi, resa oltretutto vagamente gemella dall’identico abbigliamento che neutralizzava il loro essere maschio e femmina. Suo fratello Antonio, per esempio, ostentava quei capelli lunghi sulle spalle, da Messia selvaggio. Lo differenziavano però, dai tratti più morbidi di Gilda, i lineamenti fissi e glacialmente pallidi. Sta di fatto che, quando incrociavo per strada la loro apparizione, erano Gilda e Antonio a salutarmi per primi, con l’unisono di una formula incantatoria. E così la loro immagine acquistava il potere di seguirmi fino dentro casa, sovrapponendosi a ogni altro oggetto domestico potessi mettere a fuoco (riporto da un mio appunto dell’epoca). A quanto pare subivo una sorta di malia che mi indisponeva ma che, sotto sotto, non mi dispiaceva poi così tanto. Così come mi atterriva e lusingava la curiosità che Gilda e il fratello avevano sviluppato nei miei confronti. Caso raro, peraltro, visto che il gruppo di cui erano i leader tendeva ad una chiusura da setta. Per un certo periodo loro due avevano addirittura preso l’abitudine di fermarmi, ogni tanto, con un pretesto. La mia parentela gliene offriva l’occasione: in famiglia abbondano medici e avvocati. Capitava perciò, in pieno corso del paese, che Gilda sollevasse l’indice all’altezza dei miei occhi, come per immobilizzarmi. Allora la sua voce – chiara, adenoidale – si informava sugli orari del mio parente oculista.
«Hai sempre fretta», mi rimbrottava senza mollarmi con lo sguardo, «Come se avessi paura di noi».
«Paura di te», la correggeva Antonio, lasciandomi poi andare con la liberatoria di una pacca sulla spalla. Gilda non aveva torto: loro due rappresentavano un’alterità difficile da inserire nelle categorie del mio mondo. Ovvero la classe colta del nostro paesone, composta da alcune professioni liberali molto corteggiate dalla politica locale. Un ceto che teneva a distanza, con una vena di paternalismo illuminato, i borderline come Gilda e Antonio. Il che mi pareva un limite perbenistico. Dopodiché è accaduto che seguissi le orme di due miei zii, iscrivendomi a Medicina. Avevo già chiaro in mente, tuttavia, che avrei ampliato la loro visuale così miope con una specializzazione al crocevia fra Scienza e studi umanistici. Neurologia, propedeutica al training sfociato nell’abilitazione alla psicoterapia, quindi al suo esercizio.
L’analisi didattica si è rivelata più sofferta del previsto, a dirla tutta. Mi ha comunque ripagato con il passaggio ad un assetto davvero nuovo delle consapevolezze personali. Come la messa a fuoco di un’immagine che arrivi al grado di risoluzione ottimale. La pensavo così quando lei mi ha telefonato in studio. Non sono trasalito, anche se avrei dovuto dinanzi all’istantaneo, nitido riconoscimento della sua voce. Gilda, inalterata negli anni. Desiderava intraprendere un percorso di analisi. D’istinto avrei voluto chiederle: «perché proprio con me?». Me ne astenni: le reazioni emotive non hanno diritto di esistere in quello che, di fatto, era già il preludio al setting analitico vero e proprio. Poi non volevo scoraggiarla, né mostrarmi debole. Le sedute hanno preso il via tre settimane fa. In quei cinquanta, canonici minuti io sono uno specchio per i pazienti: ne restituisco l’immagine sempre meno sfuocata. Davanti a quello specchio Gilda ha scoperchiato gli abissi del proprio immaginario che non concepisce limiti. Io dovrei essere sono una sorta di specchio che riflette Gilda e la induce a riflettere, eppure... «Sei a disagio?», mi ha chiesto una volta. Prima avevo accavallato di scatto le gambe. I suoi incubi non fanno che alludere a me, a me, a me.