Corriere del Mezzogiorno (Campania)
DOVE È ANDATA A FINIRE LA LEGISLATURA COSTITUENTE?
Un sintetico, ma acuto articolo di Umberto Curi su «Paradoxa Forum» del 29 gennaio tratta un tema del quale nessuno sembra preoccuparsi, ma che davvero è centrale nella discussione che da tanto tempo si fa sulle riforme istituzionali di cui il paese avrebbe bisogno. Egli si riferisce al modo, agli strumenti e alle vie per cui in Italia già da decenni si fanno le leggi. Secondo la Costituzione, è il Parlamento che ha il potere di legiferare. Nella pratica, invece, questo potere, che in via di principio e di teoria nessuno ha mai negato, né nega al Parlamento, si è in via di fatto trasferito in una molto alta proporzione al governo, e non solo per materie straordinarie o urgenti, come la Costituzione stessa prevede, ma anche per settori legislativi del tutto ordinari e non particolarmente urgenti, per i quali, però, si adotta la procedura di urgenza prevista, come si è detto, dal testo costituzionale, ma solo in certi casi. Curi riferisce che nel Parlamento ora sciolto, in carica da cinque anni quasi pieni, la decretazione di urgenza del governo è stata adottata 95 volte dai tre governi che nel frattempo si sono succeduti (Letta, Renzi, Gentiloni), ossia all’incirca tre volte a bimestre, o, se si preferisce diciotto volte all’anno.
Contrariamente a quel che forse molti immaginano, il primato nell’adozione di questa procedura tocca al governo Letta con cinque casi di decretazione di urgenza a bimestre. Naturalmente, per questa via dell’urgenza si determina più che spesso la necessità del ricorso al voto di fiducia, altro sistema di risolvere i rapporti fra governo e Parlamento pienamente costituzionale, ma per il quale le forze politiche si denunciano a vicenda dichiarando necessario il voto di fiducia quando sono al governo e attaccandolo fieramente quando sono all’opposizione perché strozza la discussione dei provvedimenti da adottare, alla quale il Parlamento ha diritto. Al voto di fiducia in questo Parlamento è spesso ricorso anche il governo Gentiloni, che nel non lungo periodo del suo mandato ha raggiunto la notevole cifra di 107 voti di fiducia. Ancora peggio è coi cosiddetti «decreti delegati», ossia i decreti mediante i quali il governo traduce in testi di legge le materie ad esso delegate dal Parlamento sulla scorta di linee generali di metodo e di merito indicate dallo stesso Parlamento. Quasi sempre si finisce col constatare che la rispondenza dei «decreti delegati» del governo alle linee indicate dal Parlamento non è quella che dovrebbe essere. E, infine, sono chiaramente dovuti alla «iniziativa del governo, declinata – nota Curi – in varie forma», dalla legge di bilancio alle leggi di riforma elettorale, alcuni dei provvedimenti più essenziali e importanti della legislazione nazionale.
La statistica che da tutto ciò risulta è impressionante. Appare da essa che quasi i tre quarti dei testi di legge adottati nei cinque anni del Parlamento ora sciolto sono «frutto dell’iniziativa dell’esecutivo e non del Parlamento», e, cioè, non del potere legislativo, al quale lo riserva la Costituzione. Qui, però, a Curi osserverei che, quando si parla di «potere esecutivo», si intende poi, in pratica, il governo. Ma quando si parla di esecutivo, non è solo al governo che bisogna pensare. Il governo opera attraverso e con tutto l’apparato dello Stato, che non è un soggetto sociale manovrabile a piacere, passivo esecutore delle volontà dei governi. È, invece, un soggetto sociale dotato di una sua personalità, che nello sviluppo dello Stato moderno fra XIX e XX secolo si è sempre meglio definita e ha assunto tutti i tratti di un protagonista della vita pubblica sempre più autonomo e sempre più influente. Non è, insomma un caso che abbia ben presto attecchito il detto: «i ministri passano, i direttori generali restano».
La conclusione politica di Curi è difficilmente contestabile. «Vista l’omogeneità di comportamenti di personalità tra loro molto diverse, come Letta, Renzi e Gentiloni, si dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che deroghe, abusi, anomalie sul piano del funzionamento delle istituzioni non sono conseguenza di una luciferina volontà di manomissione da parte di chi, come Renzi appunto, aveva promosso l’approvazione di alcune riforme istituzionali, ma sono imposte da alcune realtà di fatto, impossibili da ignorare o sottovalutare», tanto che perfino «il mite e prudentissimo Gentiloni» ha dovuto addirittura peccare in questa materia più degli altri. Eppure, nel caso di quella ora conclusa, si tratta certo di una legislatura in cui i governi e il Parlamento hanno lavorato su vari terreni con risultati che non si possono disconoscere.
Negli anni che hanno preceduto l’indizione delle elezioni, e specialmente quando si votò il referendum promosso da Renzi, si sentiva dire che la prossima Legislatura avrebbe dovuto essere una «Legislatura costituente». Ciò voleva dire che il prossimo Parlamento si dovrebbe occupare di rivedere la nostra carta costituzionale per sanare – se non altro, limitandosi, cioè. al minimo – la distanza che si è determinata tra le norme costituzionali e la prassi politica. Poi di questo non si è più parlato. Non si parla, infatti, di altro che della futura maggioranza e non si discute di altro che se il diritto di formare il governo spetti al partito più votato o alla coalizione più forte e con una sua maggioranza (dimenticando – enorme particolare! – che il conferimento dell’incarico di formare il governo tocca, in piena autonomia, al Presidente della Repubblica). Poi naturalmente si parla pure (meno male!) di lavoro, economia, migranti, sicurezza ecc. ecc. (però, di Mezzogiorno sempre molto poco, se non nulla), ma di istituzioni zero. E non è per nulla una buona cosa.