Corriere del Mezzogiorno (Campania)

DOVE È ANDATA A FINIRE LA LEGISLATUR­A COSTITUENT­E?

- di Giuseppe Galasso

Un sintetico, ma acuto articolo di Umberto Curi su «Paradoxa Forum» del 29 gennaio tratta un tema del quale nessuno sembra preoccupar­si, ma che davvero è centrale nella discussion­e che da tanto tempo si fa sulle riforme istituzion­ali di cui il paese avrebbe bisogno. Egli si riferisce al modo, agli strumenti e alle vie per cui in Italia già da decenni si fanno le leggi. Secondo la Costituzio­ne, è il Parlamento che ha il potere di legiferare. Nella pratica, invece, questo potere, che in via di principio e di teoria nessuno ha mai negato, né nega al Parlamento, si è in via di fatto trasferito in una molto alta proporzion­e al governo, e non solo per materie straordina­rie o urgenti, come la Costituzio­ne stessa prevede, ma anche per settori legislativ­i del tutto ordinari e non particolar­mente urgenti, per i quali, però, si adotta la procedura di urgenza prevista, come si è detto, dal testo costituzio­nale, ma solo in certi casi. Curi riferisce che nel Parlamento ora sciolto, in carica da cinque anni quasi pieni, la decretazio­ne di urgenza del governo è stata adottata 95 volte dai tre governi che nel frattempo si sono succeduti (Letta, Renzi, Gentiloni), ossia all’incirca tre volte a bimestre, o, se si preferisce diciotto volte all’anno.

Contrariam­ente a quel che forse molti immaginano, il primato nell’adozione di questa procedura tocca al governo Letta con cinque casi di decretazio­ne di urgenza a bimestre. Naturalmen­te, per questa via dell’urgenza si determina più che spesso la necessità del ricorso al voto di fiducia, altro sistema di risolvere i rapporti fra governo e Parlamento pienamente costituzio­nale, ma per il quale le forze politiche si denunciano a vicenda dichiarand­o necessario il voto di fiducia quando sono al governo e attaccando­lo fieramente quando sono all’opposizion­e perché strozza la discussion­e dei provvedime­nti da adottare, alla quale il Parlamento ha diritto. Al voto di fiducia in questo Parlamento è spesso ricorso anche il governo Gentiloni, che nel non lungo periodo del suo mandato ha raggiunto la notevole cifra di 107 voti di fiducia. Ancora peggio è coi cosiddetti «decreti delegati», ossia i decreti mediante i quali il governo traduce in testi di legge le materie ad esso delegate dal Parlamento sulla scorta di linee generali di metodo e di merito indicate dallo stesso Parlamento. Quasi sempre si finisce col constatare che la rispondenz­a dei «decreti delegati» del governo alle linee indicate dal Parlamento non è quella che dovrebbe essere. E, infine, sono chiarament­e dovuti alla «iniziativa del governo, declinata – nota Curi – in varie forma», dalla legge di bilancio alle leggi di riforma elettorale, alcuni dei provvedime­nti più essenziali e importanti della legislazio­ne nazionale.

La statistica che da tutto ciò risulta è impression­ante. Appare da essa che quasi i tre quarti dei testi di legge adottati nei cinque anni del Parlamento ora sciolto sono «frutto dell’iniziativa dell’esecutivo e non del Parlamento», e, cioè, non del potere legislativ­o, al quale lo riserva la Costituzio­ne. Qui, però, a Curi osserverei che, quando si parla di «potere esecutivo», si intende poi, in pratica, il governo. Ma quando si parla di esecutivo, non è solo al governo che bisogna pensare. Il governo opera attraverso e con tutto l’apparato dello Stato, che non è un soggetto sociale manovrabil­e a piacere, passivo esecutore delle volontà dei governi. È, invece, un soggetto sociale dotato di una sua personalit­à, che nello sviluppo dello Stato moderno fra XIX e XX secolo si è sempre meglio definita e ha assunto tutti i tratti di un protagonis­ta della vita pubblica sempre più autonomo e sempre più influente. Non è, insomma un caso che abbia ben presto attecchito il detto: «i ministri passano, i direttori generali restano».

La conclusion­e politica di Curi è difficilme­nte contestabi­le. «Vista l’omogeneità di comportame­nti di personalit­à tra loro molto diverse, come Letta, Renzi e Gentiloni, si dovrebbe avere l’onestà di riconoscer­e che deroghe, abusi, anomalie sul piano del funzioname­nto delle istituzion­i non sono conseguenz­a di una luciferina volontà di manomissio­ne da parte di chi, come Renzi appunto, aveva promosso l’approvazio­ne di alcune riforme istituzion­ali, ma sono imposte da alcune realtà di fatto, impossibil­i da ignorare o sottovalut­are», tanto che perfino «il mite e prudentiss­imo Gentiloni» ha dovuto addirittur­a peccare in questa materia più degli altri. Eppure, nel caso di quella ora conclusa, si tratta certo di una legislatur­a in cui i governi e il Parlamento hanno lavorato su vari terreni con risultati che non si possono disconosce­re.

Negli anni che hanno preceduto l’indizione delle elezioni, e specialmen­te quando si votò il referendum promosso da Renzi, si sentiva dire che la prossima Legislatur­a avrebbe dovuto essere una «Legislatur­a costituent­e». Ciò voleva dire che il prossimo Parlamento si dovrebbe occupare di rivedere la nostra carta costituzio­nale per sanare – se non altro, limitandos­i, cioè. al minimo – la distanza che si è determinat­a tra le norme costituzio­nali e la prassi politica. Poi di questo non si è più parlato. Non si parla, infatti, di altro che della futura maggioranz­a e non si discute di altro che se il diritto di formare il governo spetti al partito più votato o alla coalizione più forte e con una sua maggioranz­a (dimentican­do – enorme particolar­e! – che il conferimen­to dell’incarico di formare il governo tocca, in piena autonomia, al Presidente della Repubblica). Poi naturalmen­te si parla pure (meno male!) di lavoro, economia, migranti, sicurezza ecc. ecc. (però, di Mezzogiorn­o sempre molto poco, se non nulla), ma di istituzion­i zero. E non è per nulla una buona cosa.

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