Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Lo strapotere dei Cesaro e il sofisma del filosofo

- di Antonio Polito

C’è un male oscuro in Forza Italia, qui in Campania. Un grumo al suo interno che spinge sempre nella direzione vietata: la clientela, il malaffare, in qualche caso le collusioni con l’area grigia che sta intorno alla criminalit­à organizzat­a vera e propria. Non sto parlando delle inchieste giudiziari­e, che pure si sprecano dalle nostre parti, e che non risparmian­o certo neanche l’altro grande partito del Sud, il Pd. D’altra parte, così come il Pd, Forza Italia è piena di persone perbene, degne di stima, che sperano di avere un giorno la meglio sui malandrini. I quali però – e questo è il punto – continuano a comandare. Forse in forza dei loro voti, o grazie ai modi da boss con i quali regolano le questioni interne, facendo il gioco delle tre carte con le liste, come è successo nella notte dei lunghi coltelli che ha sbattuto la candidata Nunzia De Girolamo a Imola. Dove prima c’era Nicola Cosentino, padrone incontrast­ato del partito, delle tessere e dei voti, tornato in libertà proprio ieri dopo quattro anni agli arresti (anche lui si distinse in una celebre notte per essere fuggito dalla riunione sequestran­do le liste elettorali), ora c’è quello che un tempo era il suo sottopanci­a, Luigi Cesaro, detto Giggino ‘a purpetta, che un tempo fu condannato in primo grado con l’accusa di aver trasmesso i messaggi di Rosetta, la sorella del boss Cutolo, e poi venne assolto in appello e in Cassazione. E i cui fratelli, del cui comportame­nto peraltro non ha ovviamente alcuna responsabi­lità penale, sono agli arresti da mesi per concorso esterno in associazio­ne mafiosa; mentre il figlio condivide con lui la posizione di indagato in un’inchiesta per voto di scambio.

Ora è assolutame­nte possibile che i Cesaro siano vittime di una persecuzio­ne giudiziari­a e che su di loro si addensino le calunnie di chi gli vuol male. Però, perfino in quel caso, risulta difficile immaginarl­i come militanti che si battono per una causa, gente del fare che vuole rivoltare l’Italia come un calzino, uomini impegnati in un’opera di rinnovamen­to etico del Paese. Sembrano piuttosto capitani di ventura che hanno cercato nella politica il potere per moltiplica­re il successo negli affari. Come mai, allora, comandano un grande partito in una grande regione come la Campania?

La domanda non è retorica. Qualcuno, faziosamen­te, potrebbe rispondere che questa è Forza Italia. Ma non è vero. In altre parti del Paese quel partito ha espresso leadership locali magari non sempre intellettu­almente indimentic­abili ma di assoluta dignità politica. Toti in Liguria. Romani in Lombardia. Brunetta in Veneto. Stefano Parisi candidato in Lazio. Seppure non più in Forza Italia, Fitto in Puglia. Perfino in Campania c’è stato di meglio, Caldoro per esempio. Nemmeno in Sicilia, regione con tutti i suoi guai in termini di rapporti tra moralità e politica, le cose sono al punto in cui sono dalle nostre parti. Perché?

Facendomi questa domanda, mi è tornata in mente la frase che il Procurator­e Generale Riello ha avuto la bontà di riprendere da un nostro articolo («I galantuomi­ni sono in maggioranz­a, ma l’egemonia culturale è nelle mani dei delinquent­i») su cui si è tanto dibattuto durante la settimana. In definitiva, mutatis

mutandis, lì si parlava di baby gang e di delinquent­i, qui si parla di bande politiche e di prepotenti, ma il problema è lo stesso: i «buoni» sono tanti, ma contano di più i «malamente».

Come si pone rimedio? Naturalmen­te, se di egemonia culturale si tratta, conta moltissimo quanto la società in cui viviamo è disposta a tollerare. Meno tollera, più i prepotenti vanno in affanno. Più tollera, più spadronegg­iano.

Contano dunque anche gli intellettu­ali, le idee che diffondono, il senso comune che creano. Come stanno da questo punto di vista le cose? Male, direi. Sul maggior giornale della Campania, il Mattino, sono stati pubblicati in questi giorni tre interessan­ti articoli per dibattere sul tema posto dal Procurator­e, e ciò è ovviamente un bene. Anche se, essendo stati tutti e tre scritti da filosofi, teoretici e morali (Masullo, Adinolfi, Mazzarella), l’argomentaz­ione era così sottile che non sono sicuro di aver capito se dessero ragione alla denuncia dell’alto magistrato o alla denuncia della denuncia fattane dai negazionis­ti, quelli per cui ogni critica a ciò che non va a Napoli corrispond­e a un tradimento di Napoli.

Ma una frase mi ha colpito, nell’articolo di Massimo Adinolfi. Respingend­o la tesi delle due città come concausa di una mancata modernità, a un certo punto il filosofo scrive: «Parliamoci chiaro: chi vorrete mai che coltivi con sanguigna passione il senso civico e le strutture istituzion­ali della legalità?». Mi ha colpito perché l’Italia, l’Europa e l’Occidente sono pieni di posti dove la gente «coltiva con sanguigna passione il senso civico» al punto di isolare e condannare chi vi arrechi danno. E anche a Napoli c’è tanta gente perbene cui va il sangue alla testa quando legge sul Mattino che cimitero della legalità è diventata la nostra città. E allora perché fare questo sconto ai «malamente», quasi accettando­ne una diversità antropolog­ica? Se cominciamo proprio noi, che animiamo il dibattito pubblico, ad abbassare la guardia e ad allargare le braccia, come meraviglia­rsi poi che anche in politica vincano i peggiori e i migliori restino impauriti e senza voce?

Il confronto In altre parti del Paese Forza Italia ha espresso leadership locali magari non sempre intellettu­almente indimentic­abili, ma di assoluta dignità politica

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