Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Lo strapotere dei Cesaro e il sofisma del filosofo
C’è un male oscuro in Forza Italia, qui in Campania. Un grumo al suo interno che spinge sempre nella direzione vietata: la clientela, il malaffare, in qualche caso le collusioni con l’area grigia che sta intorno alla criminalità organizzata vera e propria. Non sto parlando delle inchieste giudiziarie, che pure si sprecano dalle nostre parti, e che non risparmiano certo neanche l’altro grande partito del Sud, il Pd. D’altra parte, così come il Pd, Forza Italia è piena di persone perbene, degne di stima, che sperano di avere un giorno la meglio sui malandrini. I quali però – e questo è il punto – continuano a comandare. Forse in forza dei loro voti, o grazie ai modi da boss con i quali regolano le questioni interne, facendo il gioco delle tre carte con le liste, come è successo nella notte dei lunghi coltelli che ha sbattuto la candidata Nunzia De Girolamo a Imola. Dove prima c’era Nicola Cosentino, padrone incontrastato del partito, delle tessere e dei voti, tornato in libertà proprio ieri dopo quattro anni agli arresti (anche lui si distinse in una celebre notte per essere fuggito dalla riunione sequestrando le liste elettorali), ora c’è quello che un tempo era il suo sottopancia, Luigi Cesaro, detto Giggino ‘a purpetta, che un tempo fu condannato in primo grado con l’accusa di aver trasmesso i messaggi di Rosetta, la sorella del boss Cutolo, e poi venne assolto in appello e in Cassazione. E i cui fratelli, del cui comportamento peraltro non ha ovviamente alcuna responsabilità penale, sono agli arresti da mesi per concorso esterno in associazione mafiosa; mentre il figlio condivide con lui la posizione di indagato in un’inchiesta per voto di scambio.
Ora è assolutamente possibile che i Cesaro siano vittime di una persecuzione giudiziaria e che su di loro si addensino le calunnie di chi gli vuol male. Però, perfino in quel caso, risulta difficile immaginarli come militanti che si battono per una causa, gente del fare che vuole rivoltare l’Italia come un calzino, uomini impegnati in un’opera di rinnovamento etico del Paese. Sembrano piuttosto capitani di ventura che hanno cercato nella politica il potere per moltiplicare il successo negli affari. Come mai, allora, comandano un grande partito in una grande regione come la Campania?
La domanda non è retorica. Qualcuno, faziosamente, potrebbe rispondere che questa è Forza Italia. Ma non è vero. In altre parti del Paese quel partito ha espresso leadership locali magari non sempre intellettualmente indimenticabili ma di assoluta dignità politica. Toti in Liguria. Romani in Lombardia. Brunetta in Veneto. Stefano Parisi candidato in Lazio. Seppure non più in Forza Italia, Fitto in Puglia. Perfino in Campania c’è stato di meglio, Caldoro per esempio. Nemmeno in Sicilia, regione con tutti i suoi guai in termini di rapporti tra moralità e politica, le cose sono al punto in cui sono dalle nostre parti. Perché?
Facendomi questa domanda, mi è tornata in mente la frase che il Procuratore Generale Riello ha avuto la bontà di riprendere da un nostro articolo («I galantuomini sono in maggioranza, ma l’egemonia culturale è nelle mani dei delinquenti») su cui si è tanto dibattuto durante la settimana. In definitiva, mutatis
mutandis, lì si parlava di baby gang e di delinquenti, qui si parla di bande politiche e di prepotenti, ma il problema è lo stesso: i «buoni» sono tanti, ma contano di più i «malamente».
Come si pone rimedio? Naturalmente, se di egemonia culturale si tratta, conta moltissimo quanto la società in cui viviamo è disposta a tollerare. Meno tollera, più i prepotenti vanno in affanno. Più tollera, più spadroneggiano.
Contano dunque anche gli intellettuali, le idee che diffondono, il senso comune che creano. Come stanno da questo punto di vista le cose? Male, direi. Sul maggior giornale della Campania, il Mattino, sono stati pubblicati in questi giorni tre interessanti articoli per dibattere sul tema posto dal Procuratore, e ciò è ovviamente un bene. Anche se, essendo stati tutti e tre scritti da filosofi, teoretici e morali (Masullo, Adinolfi, Mazzarella), l’argomentazione era così sottile che non sono sicuro di aver capito se dessero ragione alla denuncia dell’alto magistrato o alla denuncia della denuncia fattane dai negazionisti, quelli per cui ogni critica a ciò che non va a Napoli corrisponde a un tradimento di Napoli.
Ma una frase mi ha colpito, nell’articolo di Massimo Adinolfi. Respingendo la tesi delle due città come concausa di una mancata modernità, a un certo punto il filosofo scrive: «Parliamoci chiaro: chi vorrete mai che coltivi con sanguigna passione il senso civico e le strutture istituzionali della legalità?». Mi ha colpito perché l’Italia, l’Europa e l’Occidente sono pieni di posti dove la gente «coltiva con sanguigna passione il senso civico» al punto di isolare e condannare chi vi arrechi danno. E anche a Napoli c’è tanta gente perbene cui va il sangue alla testa quando legge sul Mattino che cimitero della legalità è diventata la nostra città. E allora perché fare questo sconto ai «malamente», quasi accettandone una diversità antropologica? Se cominciamo proprio noi, che animiamo il dibattito pubblico, ad abbassare la guardia e ad allargare le braccia, come meravigliarsi poi che anche in politica vincano i peggiori e i migliori restino impauriti e senza voce?
Il confronto In altre parti del Paese Forza Italia ha espresso leadership locali magari non sempre intellettualmente indimenticabili, ma di assoluta dignità politica