Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Giulio Paolini: «Così faccio rivivere sei miti classici»

- Rossana Di Poce

Classe (ed eleganza) 1940, Giulio Paolini inaugura domani alla Galleria Artiaco (piazzetta Nilo, alle 19) Rinascita di Venere. Sei sale «distillate» per raccontare la poetica di un artista che indagato il dialogo tra l’antico e il contempora­neo. Una vita intera spesa tra le categorie semiologic­he della copia, del doppio, dell’identifica­zione e del rapporto tra spettatore e opera.

Maestro, cosa racconta questa volta?

«Non mi chiami maestro. Questa è una mostra particolar­e: non è un insieme di opere assortite, ma pretende di avere un itinerario. Ogni sala è dedicata a una identità mitologica, classica, cristiana o addirittur­a germanica come nel Lohengrin. Ogni sala ha un ospite, un protagonis­ta della nostra cultura».

Gli ospiti che preferisce?

«Nella sala dedicata a San Sebastiano, più che un martire ho ritratto un beato estatico. In tutta l’arte antica, infatle

ti, il santo non è mai sofferente, ma come assorto nel suo sacrificio. Ho un po’ esagerato questa versione e l’ho chiamata Estasi di San Sebastiano».

Si tratta di opere pensate per questa esposizion­e?

«Fatta eccezione per l’Ermafrodit­o esposto a Firenze questa estate, tutto il resto è ideato per questa occasione. Come scenografo, invece, il meglio che potevo dare a Napoli l’ho dato all’epoca di Gioacchino Tomasi Lanza, quando fui chiamato due volte per scenografi­e di opere di Wagner al San Carlo. Mi sono rimaste molto care. Ho sempliceme­nte proseguito alcune ricerche, per esempio col Lohengrin, una delle sei figure qui evocate, coi suoi due cigni di plexiglass. Siccome il povero Lohengrin non riuscì nel suo intento di raggiunge l’amata, i cigni che lo conducono verso la meta sono in posizione contrappos­ta».

«Rinascita di Venere» un titolo classico ma di rottura.

«Noi abbiamo smarrito nell’arte la cosiddetta aurea, per dirla con Benjamin. Trovo le esperienze attuali piuttosto discutibil­i perché tendono globalment­e, fatte le dovute eccezioni, a concession­i eccessive al gusto corrente e all’effetto straordina­rio. Così l’opera perde la naturale distanza da chi osserva, cosa che secondo me le è necessaria e insostitui­bile. Se ci si avvicina troppo alle lusinghe del pubblico, l’arte finisce per perdere la sua forza e la sua efficacia».

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Studio «Rinascita di Venere» (2017)

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