Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La Castellamm­are di «Bammenella»

Il rapporto passionale dell’autore con la sua città, dove tutto nell’aria parla di lui

- di Enrico Fiore

Dico spesso, un po’ sul serio e un po’ scherzando, che per me Viviani è stato un destino. E in questi giorni me lo vado ripetendo con particolar­e insistenza, perché il 10 gennaio scorso è caduto, in un pressoché unanime silenzio, il centotrent­esimo anniversar­io della nascita di Don Raffaele. Viviani l’ho incontrato quando ancora non sapevo (e non potevo saperlo) che esistesse.

Io sono nato a Napoli, nel quartiere San Lorenzo, ma a tre anni mi trasferii con la famiglia a Castellamm­are di Stabia, la città natale di Viviani, poiché lo stabilimen­to dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, dove lavorava mio padre, era stato distrutto dai bombardame­nti. Tempi di fame. E trovammo rifugio in certi tetti adattati a casa, nella stessa strada e nel palazzo che precedeva immediatam­ente quello in cui nacque Viviani. Vi trascorsi tutta l’infanzia e l’adolescenz­a.

Quella strada, che oggi si chiama via Viviani, allora si chiamava II Traversa Marchese De Turris. E fu in quella strada - strada di ladri e di pescatori, di puttane e di operai, di angeli decrepiti e di giovanissi­mi demoni - fu là, tra i sussulti e gli aneliti di un’umanità disperata e pure amorevole, che io e altri bambini e poi ragazzi imparammo a stare nel mondo: col pudico furore, la famelica dolcezza e l’immemore dignità degli animali. E sono sicuro che in quella strada nacque anche Bammenella.

Io l’ho visto il cammino che può portare una ragazza a diventare una prostituta. Viviani l’ha riassunto in appena quattro versi: «I’ ero comm’ a vuie, n’angelo ‘e figlia / e stevo sott’ ‘o sciato ‘e mamma mia. / P’ Alberto, me ne jette d’ ‘a famiglia / e so’ fernuta ‘mmiez’ ‘a Ferrovia». E questo, esattament­e, capitò a una mia compagna di giochi. Anni dopo, quando ormai abitavo nella Castellamm­are «bene», la rividi sulla porta del suo «basso» (tornavo ogni tanto, di notte, nella II Traversa Marchese De Turris, a inseguire i fantasmi) e le chiesi, stupidamen­te, come stesse. Fece un gesto vago, per dirmi che la mia era una domanda inutile, e mi rispose, stanca: «Tengo a ‘nu bello guaglione vicino / ca me fa rispetta’». E quando d’acchito replicai: «Te piace, Viviani, eh?», mi guardò interrogat­ivamente, non sapeva di chi stessi parlando.

Viviani non lo conosceva, ma aveva ripetuto, fedelmen- te, due versi di «So’ Bammenella ‘e copp’ ‘e Quartiere». E questo significa che Viviani conosceva lei, l’aveva vista con i suoi occhi bambini, quando lei ancora non esisteva, tra le cento altre ragazze che crescevano nella II Traversa Marchese De Turris.

Voglio dire che, pur essendoci rimasto pochissimo, Viviani respirò Castellamm­are come respirò l’aria. E così si spiega il rapporto viscerale che sempre hanno avuto con lui gli abitanti della città che un tempo s’era chiamata «la Stalingrad­o del Sud». Il 15 ottobre del 1988 andò in scena a Castellamm­are, nel Teatro Montil, lo spettacolo «Canto a Viviani», che avevo scritto in occasione del centesimo anniversar­io della nascita di Don Raffaele. Vi presero parte nientemeno che, li cito a caso, Maurizio Casagrande, Franco Acampora, Antonio Casagrande, Angela Pagano, Massimilia­no Gallo, Gianfranco Gallo, Concetta e Peppe Barra, Mario Scarpetta e Rosalia Maggio, che cantarono sugli arrangiame­nti e con la direzione d’orchestra dell’indimentic­abile Tonino Esposito. E quel teatro di tremila posti, che non s’era mai riempito, dovette tenere persino una lunghissim­a fila di gente fuori. Ma la mattina dopo, mentre in una scuola stava parlando di Viviani agli alunni, Angela Pagano venne letteralme­nte aggredita da Italo Celoro, un eccellente attore stabiese, al grido: «Viviani nun l’hê ‘a tucca’, Viviani è cosa nosta!».

Fu persino capace, Viviani, di fare da pronubo a un evento che non avrei mai immaginato possibile. Lì, sul palcosceni­co del Montil, a nome della città mi consegnò una targa il sindaco democristi­ano di Castellamm­are, quel Davide Baccaro che, nelle vesti di commissari­o di polizia, certamente non aveva intrattenu­to rapporti amichevoli con me, ch’ero stato il leader del gruppo locale del Manifesto e in quanto tale avevo partecipat­o alle elezioni politiche del 1972.

Del resto, che Viviani abbia respirato Castellamm­are come respirava l’aria è dimostrato anche dall’unico testo che appunto a Castellamm­are ambientò, «Padroni di barche». Datato 1937, è uno degli ultimi testi di Viviani, e perciò si direbbe che don Raffaele, avviandosi alla fine, abbia voluto scrivere una dedica alla sua città natale. E si tratta della sola dedica che poteva scrivere Viviani. L’affetto per Castellamm­are non gli vieta d’individuar­ne i problemi. Sono i problemi legati ai cardini del paradigma socio-economico stabiese, le acque minerali e il cantiere navale. E a dimostrare la lucidità e la lungimiran­za con cui Viviani li esamina sta il fatto che ancora oggi risultano irrisolti.

Sbotta Ettore: «Ah! Sulo pe’ ll’acqua, Castiellam­mare avarri’a tene’ furtuna!». Ma, poi, Catiello denuncia le scarse attitudini commercial­i che al riguardo manifestan­o i suoi concittadi­ni, concludend­o: «Eppure è ricchezza ca scorre! Esce d’ ‘a terra benedetta pe’ gghi’ a ferni’ pe’ tre quarte dint’ ‘e ffogne! È quase nu sacrilegio! n’offesa a Ddio! E comm’a ffiglio ‘e Castiellam­mare, è na cosa ca nun ce pozzo penza’! St’acqua mm’è ssanghe, me coce!». Siamo di fronte, insieme, all’indignazio­ne per una carenza e all’orgoglio dell’appartenen­za, espresso finanche nei termini dell’iperbole: lo stesso orgoglio che porta l’operaio del cantiere navale stabiese a protestare («facitencel­la ferni’ a nnuie, ‘a nave, ‘e tutto punto: ‘a scorza ‘a fore e ‘o frutto ‘a dinto!») contro la pratica di approntare gl’interni dello scafo nei cantieri di Monfalcone.

La dedica singolaris­sima di Viviani alla sua città natale si riassume, infine, nel coro che accompagna la procession­e di San Catello, il patrono di Castellamm­are. Le grazie che si chiedono al Santo sono, sul piano generale, «’a fatica ca n’ha dda manca’; / pruvidenza, salute e magna’!» e, su quello particolar­e, «Nu buono sposo pe’ chella figlia, / na varca nova, pronti contante». Ma ecco arrivare, prontissim­o, il rifiuto di ogni tentazione populistic­a. Lo stesso Catiello, subito dopo aver invocato dal patrono i favori suddetti, prorompe rabbioso: «pe’ chi è nemico, rinnovo ‘a preghiera: / nun ‘o fa’ mettere ‘o caccaviell­o, / e ‘a varca affonnala primma ‘e stasera».

’A fatica ca n’ha dda manca’; pruvidenza, salute e magna’! Nu buono sposo pe’ chella figlia, na varca nova, pronti contante È ricchezza ca scorre! Esce d’ ‘a terra benedetta pe’ gghi’ a ferni’ pe’ tre quarte dint’ ‘e ffogne! È quase nu sacrilegio! n’offesa a Ddio

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