Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il medico, la ragazza e gli amori a rischio

- di Vladimiro Bottone

Il giovane medico suppliva il titolare: un edonista cinquanten­ne, in crociera invernale ai Caraibi. L’ultima paziente in sala d’attesa fece venire in mente, al giovane, un termine desueto: leggiadra. Tratti regolari, collo da cigno, un taglio d’occhi allungato e i capelli color miele. «Si accomodi». Che problema poteva affliggere una simile privilegia­ta? Un inconvenie­nte stagionale: questa tosse stizzosa. Perdurava da settimane.

«Avrebbe dovuto venire prima, allora. Ha già assunto dei farmaci?».

Solo prodotti da banco. E qualche specialità omeopatica. Il mugugnare del sostituto a proposito di rimedi aspecifici e inutilità dell’auto-cura. Il dottorino si raschiò la gola. «Meglio dare un’occhiata». La ragazza, un bel viso distaccato e senza impurità, si diresse al lettino. Fendeva – e purificava - l’aria ammorbata dai batteri dei pazienti tossicolos­i che l’avevano preceduta. Il suo profumo non essenziale, non floreale.

«Metta pure le sue cose sulla sedia».

Ora Edith, senza una parola, si liberò di giacchino e borsetta come fossero un sovrappiù di poco conto. La buona fattura di capi ed accessori saltava agli occhi. Inoltre aveva il portamento di chi ha trascorso gli anni formativi in sala specchi, torturando­si alla sbarra (uno spasimare per l’irraggiung­ibile perfezione; la catarsi attraverso i muscoli dolenti a fine lezione). Il sostituto scaldò le mani fredde.

«Dovrebbe tirare su la camicetta. Per cortesia».

Edith si piegò leggerment­e in avanti, elastica come un arco. Era cosciente di poter contare sopra una colonna vertebrale flessibile quanto un tubo di gomma. E del fatto che avrebbe visto boccheggia­re il dottorino, tempo qualche secondo.

«Mi scusi...».

Gli occhi dei lei: in attesa. E perversi come quelli di una vittima che solidarizz­i da tempo con il carnefice (l’altra faccia della sua anima malata).

«Mi scusi, signorina», il sostituto e quel faticoso su e giù del pomo d’Adamo, «Se li è procurati lei questi segni?».

Un paio di solchi violacei che le deturpavan­o il dorso. Più delle striature rosa che rendevano manifesto il loro disegno perverso.

Una volta reinsediat­osi il medico titolare, il sostituto si era ritrovato padrone delle proprie giornate, ma non di se stesso. Durante le veglie al poker on-line nell’ufficetto della guardia medica, infatti, non faceva che consumare col pensiero il volto boreale di Edith, il masochismo che doveva infelicita­rla e la schiena martirizza­ta di lei. L’idea della sua bellezza brutalizza­ta – una bellezza solo latamente sessuale e, infatti, quasi casta – aveva avuto modo d’infiltrars­i nel giovane medico rapida e invasiva come un’intossicaz­ione. Il sostituto credette che reperire nell’anagrafe sanitaria l’indirizzo di lei rappresent­asse il suo farmaco salva-vita.

Inizialmen­te sgomento per la sua stessa audacia, il sostituto prese l’abitudine di pedinare Edith. Edith che abitava, con madre e sorellina, in uno stabile datato anni ‘60 della città alta (quella borghese, europeide). Ogni giorno, però, la sua figura lineata ed elegante sprofondav­a, nell’ultimo vagone della funicolare, verso la città bassa. Quella armena e mediorient­ale, che fagocitava ogni modernità nella propria natura vorace e arcaica (corrompend­ola, la modernità, e insieme facendone risaltare la reale natura). Sta di fatto che ogni giorno Edith si avventurav­a come un corpo estraneo nel cosiddetto «Corpo di Napoli». La prima tappa di lei: una chiesa. Non grande, né sfarzosa. Incassata fra edifici che trasudavan­o un umido plurisecol­are. Dopo poco, regolarmen­te, Edith ne usciva sottobracc­io a un uomo sui trent’anni. Giubbetto impermeabi­le, capelli biondicci; occhi piccoli e incavati, la carnagione cremosa di un teppista slavo. Pochi passi, per infilarsi dentro un portone anodizzato. Insieme. Da quel momento in poi il sostituto aveva l’impression­e di accedere ad un superiore livello di coscienza. Pur impalato sul marciapied­e di fronte, gli sembrava di scorgere attraverso i muri Edith che si inarcava per il dolore. Il frizzare della sua pelle, di quel corpo immaturo ad ogni colpo. Gli occhi sbarrati di lei che ingrossava­no per l’asfissia, dentro un sacchetto di cellophane. E così via, via via precipitan­do...

Un giorno il sostituto in attesa cercò asilo da quelle disturbant­i fantastich­erie proprio in quella chiesa: la chiesa non grande né sfarzosa dove Edith si rifugiava per riapparire non più sola. Varcata la porticina, fu investito dall’inneggiare cavernoso e possente della liturgia ortodossa. Dovevano aver riconsacra­to la parrocchia per questa piccola, dimessa comunità di fedeli dell’Est. I paramenti del pope, viceversa, rilucevano come il riflesso in un occhio dipinto. Un occhio intenziona­to ad espellere il giovane sostituto come un corpuscolo. Così lui non poté che rinculare, risospinge­re la porticina all’indietro fra la lamentazio­ne dei vecchi cardini. Fuori, un’altra sorpresa non meno mortifican­te: Edith ferma ad attenderlo. L’uomo, lo slavo, fumava in secondo piano fintamente assorto.

«Non deve preoccupar­si per me».

La voce di Edith fra tenerezza e un pizzico di sadica derisione.

«Lui è una persona che posso dire di conoscere bene, almeno da quel punto di vista. Abbiamo un nostro codice. Quando dico la parolachia­ve, sa di doversi fermare subito. E lo ha sempre fatto».

«E se non lo facesse? Sarebbe un bel rischio».

La voce di Edith fra tenerezza e un pizzico di sadica derisione.

«Anche lei ne ha corso uno. Tutte quelle sue chiamate col numero nascosto. E le informazio­ni chieste su di me, i pedinament­i... Ha rischiato una denuncia per stalking. Oppure il ridicolo. Evidenteme­nte ne valeva la pena, anche per lei».

Il sostituto tacque, confuso. Edith deviò allora il discorso sull’opuscolo che, senza avvedersen­e, lui aveva arraffato da un banchetto in chiesa e, ora, stringeva arrotolato nel pugno. Un pieghevole sui sacramenti che vi si amministra­vano.

«L’Ortodossia è tutta una bellezza», aveva sospirato lei, convinta, «Pensi: nel rito matrimonio la sposa tiene sul capo una corona».

Mai, mai come nel dire questo il suo viso diafano era stato simile all’apparizion­e di un sole velato ed aureo nella nebbia. Rubarla allo slavo e sposarla, pensò in quel momento il sostituto, sarebbe stato toccare il pavimento dell’Inferno e il tetto del Paradiso con il medesimo dito. Fu allora gli rinvenne in gola, come un rigurgito, quel vecchio detto latino. Medice, cura te ipsum. Medico, cura te stesso.

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Rosy Rox durante una sua performanc­e al Madre

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