Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Napoletani scomparsi Dal Messico solo silenzi
La famiglia torna a denunciare la mancanza di collaborazione delle autorità locali e rivolge un nuovo appello alla Farnesina
Nello stato del Jalisco in Messico i narcos internazionali del cartello «El Mencho» sono tanto violenti che meno di un anno fa hanno abbattuto un elicottero della polizia con un lanciarazzi. Adesso la loro strategia è cambiata e a rivelarlo è stato il governatore Aristóteles Sandoval che ha dichiarato che al momento del suo insediamento «la vulnerabilità più grande dello stato è l’infiltrazione della criminalità organizzata tra le forze dell’ordine». E cosa c’entra tutto questo con i tre napoletani «magliari» delle Case Nuove, scomparsi il 31 gennaio in Messico? C’entra, perché potrebbero essere finiti in una trappola tesa proprio da una frangia di quella polizia corrotta ed essere finiti nelle mani di agenti che cercavano soldi facili con una richiesta riscatto (mai arrivata) in nome e per conto di narcos, che pagano tangenti in cambio del loro stesso silenzio.
Uno scenario terrificante, ma possibile perché a Tecalitlan, in quella parte di Messico che affaccia sull’oceano Pacifico, la corruzione è altissima, così come la violenza scatenata da guerre per il controllo dei traffici internazionali di cocaina che proprio dal Messico prendono le vie per tutto il mondo. Ieri mattina c’è stato un summit tra le autorità messicane a l’ambasciata italiana su input della Farnesina e della Procura di Roma che ha aperto un fascicolo sul caso. Per ora di Raffaele Russo, suo figlio Antonio e Vincenzo Cimmino non ci sono tracce se non alcune voci registrate in un messaggio di Whatsapp che è stato inviato il giorno della scomparsa da Antonio a suo fratello Daniele, che era in Messico come suo fratello e suo padre, ma in un’altra località. «Siamo al distributore di benzina e ci ha fermati la polizia. Adesso siamo dietro a due motociclette e le stiamo seguendo», diceva con tono alquanto preoccupato.
Cosa è successo quel giorno? Secondo i familiari è vero che sono finiti nelle mani della polizia locale che prima ha confermato il loro arresto e poi lo ha negato. Si trovavano a cinquanta chilometri di distanza dal luogo nel quale vivevano. Alloggiavano in una piccola pensione in una città di 16mila abitanti ed erano lì per vendere generatori elettrici che acquistavano a Napoli dai cinesi. Poi il capofamiglia la mattina del 31 gennaio è uscito con un’auto presa a noleggio per fare una consegna e non ha fatto più ritorno. Il segnale Gps della vettura era attivo e così suo figlio Antonio e il nipote Vincenzo hanno raggiunto il luogo dove l’auto per l’ultima volta emetteva il segnale. Hanno iniziato a chiedere informazioni in giro sulle sorti del loro congiunto perché non c’erano tracce né di lui, né dell’auto sulla quale viaggiava. Le domande erano troppe e insistenti e i ragazzi, che erano lì solo da cinque giorni, non hanno pensato ai pericoli ai quali stavano andando incontro.
Fermi su una stazione di servizio a fare carburante per l’auto che avevano preso a noleggio sono stati avvicinati da motociclette che assomigliavano a quelle della polizia locale.
Lo hanno detto in tre audio che hanno inviato all’altro fratello Daniele che adesso è Napoli cercando di fornire informazioni utili per il ritrovamento dei loro congiunti. «Li stiamo seguendo, sono della polizia, stiamo dietro alle loro motociclette», hanno detto nell’ultimo sms. Domenica allo stadio la Curva A ha esposto uno striscione dal testo emblematico: «Liberate i napoletani in Messico». E ieri mattina i familiari dei tre scomparsi sono tornati a lanciare un appello alle autorità italiane: «Aiuto, non li abbandonate»