Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA FRAGILE ECONOMIA REGIONALE
Alla luce dei dati più recenti, è bene dare ampio risalto al tema delle disuguaglianze. In relazione al 2017, il rapporto Oxfam ha accertato che l’82% dell’incremento della ricchezza a livello mondiale è finita nelle mani dell’1% più ricco. Allo stesso tempo, il 50% della popolazione mondiale è stato escluso da qualsiasi minimo guadagno ottenuto da questa crescita. A destare ulteriore preoccupazione è la considerazione che si tratta di ricchezze per lo più ereditate, di rendite monopolistiche, o ancora il risultato di rapporti clientelari. Insomma, non sono proprio frutto del «sudore della fronte». Non molto diversa è la situazione per l’Italia: a metà del 2017 il 20% degli italiani godeva di oltre il 66% della ricchezza netta, il successivo 20% fruiva del 18,8%, mentre il 60% più povero disponeva appena del 14,8% della ricchezza nazionale. Sono divari crescenti, sintetizzati dall’1% degli italiani più ricchi che supera di 240 volte quanto possiede il 20% più povero della popolazione. Il rapporto Svimez relativo al 2017 rileva che in Campania la situazione è tutt’altro che rassicurante: pur in presenza di un incremento del Pil del 2,4%, il 40% dei cittadini corre il rischio di scivolare in una condizione di povertà. Come ridurre le disuguaglianze? È prioritario il ruolo dell’intervento pubblico. Si tratta di un dato inconfutabile. Ma occorre fare di più, molto di più. È necessario che il capitale privato consolidatosi in questi tempi, dia un robusto contributo.
È di questi giorni la dichiarazione del fondatore di Microsoft Bill Gates di volere pagare molte più tasse di quante ne paga attualmente. È un’affermazione che non farà proseliti.
Un importante strumento, invece, a cui il capitale privato può fare ricorso sono le fondazioni private. Con esse si investe nella realtà sociale, cooperando alla ricerca di soluzioni rispetto ad antiche e nuove situazioni di povertà. La storia economica dell’Italia ha in questo ambito un riferimento basilare in Adriano Olivetti che ad Ivrea condizionò le sue strategie aziendali persuaso che il profitto doveva essere reinvestito a beneficio della comunità civile.
A Napoli, invece, la fragilità delle strutture associative è evidente: si pensi alle attuali difficoltà connesse alla ricerca del nuovo presidente degli industriali partenopei, o al lungo commissariamento della Camera di commercio. Eppure, un significativo incremento di fondazioni di chi in questi ultimi anni ha tratto più profitti si muoverebbe in una prospettiva volta a dare coesione a una realtà urbana, come quella partenopea, che soffre cronicamente di disgregazione e contrapposizioni sociali. Ci vuole audacia, atteggiamento che del resto dovrebbe caratterizzare sempre le scelte degli imprenditori, per incrementare il capitale sociale, fortemente carente nel Mezzogiorno.
Certo, i progetti che le fondazioni finanziano devono poggiarsi su una rete di associazioni che conoscono bene i problemi della città, avendo relazioni personali con le persone beneficiarie, e soprattutto gran parte delle somme stanziate devono essere destinate a coloro che davvero ne necessitano. Revisori esterni potrebbero controllare l’efficacia dei progetti nelle diverse fasi di realizzazione.
Infine, un ultimo suggerimento:
I dati Il rapporto Svimez relativo al 2017 rileva che in Campania il 40% dei cittadini è a rischio povertà
nel sostegno alle attività sociali, spesso si cerca la novità e dunque si selezionano soprattutto le «start-up». Esiste, invece, un significativo gruppo di enti che già da tempo agiscono con assiduità e intelligenza nelle grandi questioni sociali di questa città. Sono veri modelli di best-practices delle politiche sociali, che potrebbero rafforzarsi e ampliarsi solo se fossero maggiormente sostenuti. Converrebbe ipotizzare una discussione pubblica su questi temi, nella consapevolezza che per il bene di Napoli e della Campania occorre che tutti, per quanto possono, facciano pienamente la propria parte.