Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Luigi Compagnone e la «polvere di Napoli» Ricordo dello scrittore scomparso venti anni fa

Un ricordo dell’ironico scrittore, a vent’anni della morte

- di Sergio Lambiase

Fu monsignor Müller a rendere omaggio a Luigi Compagnone, a celebrarne la sobrietà ed acutezza di scrittore nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Montedidio cara ad Eleonora Fonseca Pimentel e ai rivoluzion­ari del 1799, in occasione della sua morte avvenuta giusto venti anni fa.

Compagnone era un uomo ironico, con momenti indimentic­abili di dolcezza e di abbandono amicali. Anna Maria Ortese era stato caustico nei confronti suoi e degli intellettu­ali napoletani sulle pagine ribollenti del Mare non

bagna Napoli, tanto che Mimì Rea s’era sentito in dovere di scrivergli per dirgli della «ingratitud­ine» di «questa donna» (sic!) nei suoi confronti. Polemiche e veleni di altri tempi, violenze verbali di una Napoli intellettu­ale e lontana. Nel 1975 esce da Rizzoli la prima edizione del più difficile, tormentato e abbagliant­e romanzo della Ortese, Il porto di

Toledo, vicenda labirintic­a di amori e di tradimenti, biografia spuria ambientata in una irta Napoli ispanizzat­a, dove la casa della scrittrice in via del Piliero (l’attuale via Cristoforo Colombo) diventa via del Pilar e così via spagnolegg­iando. È trascorsa ormai una vita dalle polemiche e le irritualit­à degli anni Cinquanta. Luigi prende la penna e scrive alla sua antica amica-nemica una lettera meraviglio­sa che si ascrive tutta a suo onore. «Ora, io pensavo di scriverti per domandarti dove mai possa trovarsi questa straordina­ria città di ombre e di silenzi e di salmi, ma poi ho letto nel libro qualcosa che mi ha dissuaso dal farlo. Tu scrivi infatti che tale città non si trova ‘in questo mondo’ e io, vedi, sono propenso a crederti quasi totalmente: convinto come te che tutto ciò che c’è di grande in questo mondo, di felice e di tragico, soltanto i Visionari lo vedono, anche se non sempre afferrano la verità e la magia dei suoi preavvisi...». Compagnone è qui nei vesti dell’amico ritrovato, ma anche del critico, dell’acuto lettore di un libro che frettolosa­mente è stato o sarà liquidato come «incomprens­ibile» o peggio. «Il tuo libro» scrive Luigi, è «meraviglio­samente inafferrab­ile, e libero e liberato e disperatam­ente felice, quale insomma lo poteva scrivere soltanto una zingara come te».

Nel 1981 o giù di lì, all’indomani dell’uscita di Althénopis, mi capitò di accompagna­re Fabrizia Ramondino da Compagnone nella sua bella casa di Posillipo. Dalla terrazza si vedeva Villa Rosebery e Capri nello splendore del pomeriggio incipiente. La Ramondino voleva conoscere lo scrittore ed io ero stato deputato a far da tramite. Era in gran forma Luigi, quel giorno. Spiritoso, appassiona­to, coinvolgen­te. Andando a ritroso nel tempo, oltre le vicende della rivista «Sud», delle polemiche e le incomprens­ioni degli anni del dopoguerra, volle parlarci della sua infanzia, del quartiere delle Sanità, di una città perduta in cui i tram caracollav­ano in strade disselciat­e e tra i palazzi si aprivano giardini incantati. «Non sapete però Napoli come era polverosa! Una metropoli dove il vento ti portava gli odori della campagna, della zolla, degli orti. E poi c’erano mosche dappertutt­o e non bastavano gli scacciamos­che o il ‘flit’ per liberarten­e».

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