Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Luigi Compagnone e la «polvere di Napoli» Ricordo dello scrittore scomparso venti anni fa
Un ricordo dell’ironico scrittore, a vent’anni della morte
Fu monsignor Müller a rendere omaggio a Luigi Compagnone, a celebrarne la sobrietà ed acutezza di scrittore nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Montedidio cara ad Eleonora Fonseca Pimentel e ai rivoluzionari del 1799, in occasione della sua morte avvenuta giusto venti anni fa.
Compagnone era un uomo ironico, con momenti indimenticabili di dolcezza e di abbandono amicali. Anna Maria Ortese era stato caustico nei confronti suoi e degli intellettuali napoletani sulle pagine ribollenti del Mare non
bagna Napoli, tanto che Mimì Rea s’era sentito in dovere di scrivergli per dirgli della «ingratitudine» di «questa donna» (sic!) nei suoi confronti. Polemiche e veleni di altri tempi, violenze verbali di una Napoli intellettuale e lontana. Nel 1975 esce da Rizzoli la prima edizione del più difficile, tormentato e abbagliante romanzo della Ortese, Il porto di
Toledo, vicenda labirintica di amori e di tradimenti, biografia spuria ambientata in una irta Napoli ispanizzata, dove la casa della scrittrice in via del Piliero (l’attuale via Cristoforo Colombo) diventa via del Pilar e così via spagnoleggiando. È trascorsa ormai una vita dalle polemiche e le irritualità degli anni Cinquanta. Luigi prende la penna e scrive alla sua antica amica-nemica una lettera meravigliosa che si ascrive tutta a suo onore. «Ora, io pensavo di scriverti per domandarti dove mai possa trovarsi questa straordinaria città di ombre e di silenzi e di salmi, ma poi ho letto nel libro qualcosa che mi ha dissuaso dal farlo. Tu scrivi infatti che tale città non si trova ‘in questo mondo’ e io, vedi, sono propenso a crederti quasi totalmente: convinto come te che tutto ciò che c’è di grande in questo mondo, di felice e di tragico, soltanto i Visionari lo vedono, anche se non sempre afferrano la verità e la magia dei suoi preavvisi...». Compagnone è qui nei vesti dell’amico ritrovato, ma anche del critico, dell’acuto lettore di un libro che frettolosamente è stato o sarà liquidato come «incomprensibile» o peggio. «Il tuo libro» scrive Luigi, è «meravigliosamente inafferrabile, e libero e liberato e disperatamente felice, quale insomma lo poteva scrivere soltanto una zingara come te».
Nel 1981 o giù di lì, all’indomani dell’uscita di Althénopis, mi capitò di accompagnare Fabrizia Ramondino da Compagnone nella sua bella casa di Posillipo. Dalla terrazza si vedeva Villa Rosebery e Capri nello splendore del pomeriggio incipiente. La Ramondino voleva conoscere lo scrittore ed io ero stato deputato a far da tramite. Era in gran forma Luigi, quel giorno. Spiritoso, appassionato, coinvolgente. Andando a ritroso nel tempo, oltre le vicende della rivista «Sud», delle polemiche e le incomprensioni degli anni del dopoguerra, volle parlarci della sua infanzia, del quartiere delle Sanità, di una città perduta in cui i tram caracollavano in strade disselciate e tra i palazzi si aprivano giardini incantati. «Non sapete però Napoli come era polverosa! Una metropoli dove il vento ti portava gli odori della campagna, della zolla, degli orti. E poi c’erano mosche dappertutto e non bastavano gli scacciamosche o il ‘flit’ per liberartene».