Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un padre nel racconto di due figli
Originario di Forio d’Ischia, ultimo di dieci figli, primo del suo corso all’Accademia militare di Modena, pittore, scultore, poeta dannunziano, estimatore di Longanesi, monarchico, nazionalista. Enrico Belli era un galantuomo. Uno di quelli che, in una Sicilia da Gattopardo, respinto dal padre della futura moglie solo perché semplice appuntato dei Carabinieri, per orgoglio e per amore torna dopo qualche anno impettito nella sua divisa da ufficiale.
I figli Attilio e Vincenzo gli hanno dedicato un libro a oltre cinquanta anni dalla morte. E il risultato è Blu Ischia, edito da Guida. Un racconto molto speciale, non fosse altro che per essere stato scritto a quattro mani, intrecciando la memoria dell’uno e dell’altro autore e alimentando così quella comune. Perché un libro del genere? Freud, certo. Qualche senso di colpa da cui liberarsi a distanza di tempo, chissà. Ma essenzialmente per una ragione che ha a che fare con il potere evocativo della memoria. «“Vivrò ancora/ quando finalmente/ deciderai/ di venirmi a trovare”». È il verso conclusivo della poesia che Marlene Dietrich lascia alla figlia poco prima di morire. Ricordami e io tornerò a vivere. Ed è appunto quel che succede leggendo Blu Ischia: i figli ricordano, e il padre torna a vivere. Lo rivediamo bambino a Ischia, poi in giro per l’Italia al tempo dell’armistizio, di Salò, del referendum istituzionale, della Repubblica, e infine a Napoli. Ma questa è solo la ragione privata che ha ispirato il libro. Conoscendo Attilio, il più giovane e il più noto dei due fratelli, urbanista e scrittore, intuiamo che ce n’è un’altra. Una ragione che ha che fare non solo con la memoria ma anche con la storia. Ad Attilio Belli è sempre piaciuta quella “dal basso”, delle persone, perché quella ricostruita sulla base delle ideologie, della lotta di classe, o del conflitto di genere resta inevitabilmente troppo astratta. Non che tutto questo non ci sia in Blu Ischia. C’è infatti l’ideologia: il padre conservatore e il figlio Attilio che vota a sinistra. C’è la lotta di classe: il suocero che respinge il giovane Andrea e la moglie «borghesotta di provincia orgogliosa delle proprie stimate sociali». E c’è il conflitto di genere: la sorella degli autori, bravissima in latino, ma costretta ad abbandonare gli studi per ragioni di bilancio familiare.
Ma a tutto questo si aggiungono i tantissimi particolari di un diario a lungo coltivato. Ed è qui che entra in scena l’altro Belli, l’ingegnere navale Vincenzo, il vero depositario della storia familiare. I ricordi diventano così storia minuta, dettagliata e allo stesso tempo nazionale. Un giorno , per dire, arrivarono due soldati tedeschi in sidecar. I bambini della famiglia Belli erano in cortile. E a loro i militari chiesero se stavano con Mussolini o con il re. Sembra un film: leggi e immagini la polvere, gli stivali, l’accento straniero. E invece è esattamente come allora, nell’Italia ancora in guerra, andavano le cose. Se i bambini avessero risposto «con il re» sarebbe stata la fine della famiglia. Ma risposero con l’ingenuità propria della loro età, e si salvarono. «Noi stiamo con mamma e papà», dissero.