Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA TRAVIATA
VITA, AMORE, VERITÀ, MORTE
La Traviata ritorna al San Carlo ancora una volta (anzi, due volte in una stagione, ora e a maggio). All’obiezione che vorrebbe rappresentati titoli più rari, soprattutto dopo che nell’ultimo lustro Violetta Valery ci è stata somministrata in dosi massicce, si può sempre rispondere che poche opere al mondo attirano come la storia di Marie Duplessis, già protagonista di La Dame aux Camélias di Dumas figlio e potentemente reinventata dal genio di Giuseppe Verdi. Ma perché questo accade? Quale fascino promana da «madamigella Valery»? Probabilmente si tratta dell’attrazione che il cuore umano prova di fronte alla verità e alla sua nudità. Una semplice verità che coincide con l’amore e con la morte, e che arriva dopo la caduta di molte maschere, e la consunzione di troppi infingimenti. Sappiamo che Violetta è una mantenuta di alto bordo, che gode della protezione di molti, circondata dalla devozione di amanti e amici: la vediamo nel primo atto brillante padrona di casa, rispondere a tono al trepidante brindisi di un ragazzo che, le hanno riferito, l’ama da tempo. Durante la festa, lei ha un malore, ma non se ne cura davvero nessuno, tranne Alfredo, l’ingenuo spasimante, che le dichiara il suo amore. Violetta risponde a questa chiamata d’amore, perché ne riconosce la potenza e la verità. Sola nella sua stanza, alla chiusura del primo atto, dà di sé una definizione spietata: «Povera donna/sola/abban- donata/in questo popoloso deserto che appellano Parigi». Nel secondo atto, Alfredo e Violetta vivono beati in campagna, lei ha cambiato vita, si è lasciata alle spalle protettori e feste. Ma giunge il vecchio Giorgio Germont, padre del ragazzo, a ricordarle che l’amore passa presto, e senza matrimonio la donna è una pezza di cui sbarazzarsi prima o poi. Inoltre Alfredo ha una sorella, che nessuno vuole sposare a causa dell’amore illecito che macchia la sua famiglia. Nel lungo, frastagliato duetto tra i due, Violetta dice di sé un’altra verità: «non sapete/che colpita/d’atro morbo/è la mia vita?/ Che già appresso/il fin ne vedo/Ch’io mi separi da Alfredo?». È una donna coi giorni contati. Ma non per questo le viene risparmiato il sacrificio di rinunciare al suo amore. E, nell’abdicare alla sua felicità, la nostra eroina ha parole di verità, ancora una volta: non è possibile convertirsi, cioè cambiare vita, non già per volontà di Dio (che perdona), ma a causa dell’incapacità degli uomini di dimenticare e voltare pagina. Abbandonata da Alfredo (che la insulta pubblicamente ad una seconda e più triste festa), malata, chiusa dentro una stanza soffocante, Violetta intona, all’inizio del terzo atto, il suo addio alla vita, il suo addio ai «bei sogni ridenti» del passato. Estenuata dall’attesa del ritorno di Alfredo (che ha saputo tutto), colma di gioia quando, finalmente, lo vede fare ingresso nella sua stanza di malata, pronta a vestirsi per uscire e, tuttavia, vinta dallo stato irreversibile della tisi, Violetta lo guarda e constata una verità terribile, ancora una volta: «ma se tornando/non m’hai salvato/a niuno in terra/salvarmi è dato». Morirà, quindi, dopo aver nutrito una istantanea, tenerissima illusione: di, sentendosi meglio, ritornare a vivere.
Noi siamo inchiodati alla sventura di Violetta, come direbbe Simone Weil: inchiodata lo è, questa eroina, dall’inesorabile pregiudizio, da un tempo fattosi d’improvviso troppo breve, dall’incomprensione di chi dice di amarla. In questo calvario, Violetta sta sempre ad occhi aperti ad osservare la verità e a dirla: come tutte le creature che hanno molto sofferto. E quando tutte le maschere crollano e il rumore delle feste finalmente tace, noi ci troviamo con lei, a celebrare il terzo atto delle nostre vite, quella ripulitura dalle scorie che la rinuncia, la malattia e la morte, misteriosamente, ci aiutano a portare a compimento.