Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I «giorni dell’abbandono» e la sofferenza delle donne

- di Luisa Cavaliere

Illibro più bello della Ferrante non è «L’amica geniale» ma «I giorni dell’abbandono», un romanzo breve. La storia crudele di un abbandono. Il racconto incalzante di una relazione che si frantuma all’improvviso e senza un perché. O, forse, per mille, lontani e vicini, perché. Mille incrinatur­e che deflagrano in un sol colpo e negano per sempre il senso di ciò che sembrava l’unico senso da dare alla propria vita, al proprio futuro. I figli, il cane, il marito, il lavoro lare tedi amicizie, le letture. Tutto si azzera diventa materiale opaco, muto.

Tutto perde capacità seduttiva e tutto affonda nel dolore atroce di una solitudine che appare come l’unico farmaco. Un farmaco che non chiede parole. Grumo che ammala e avvelena tutto intorno a sé. Amaro e pieno di disperazio­ne.

E ai «Giorni dell’abbandono» vado ogni volta che, spesso, con dolosa stupidaggi­ne vedo affrontato il tema della complicità femminile o quando fingendo una innocenza che a nessuno e nessuna è consentita, ci si chiede «perché non denunciano?». Perché accettano che la violenza dia un colore sinistro alle loro vite. Ci sono le leggi. I tribunali. Le forze dell’ordine. I nomi delle tante forme che il reato di violenza contro le donne assume. Perché donne spesso colte, forti, capaci di affrontare il cumulo di responsabi­lità che la società scarica colpevolme­nte sulle loro spalle, vivono da sole quel corpo a corpo con chi ha un primitivo desiderio di negarle, di negare loro qualsiasi forma di libertà e, soprattutt­o qualsiasi tentativo di rompere un legame ossessivo che toglie il fiato, toglie la forza. Provoca addirittur­a vergogna. Che cosa difendono con il loro silenzio? Che cosa nutre la loro «presunzion­e» di potercela fare da sole? Che idea hanno del loro ruolo di madre? L’avvocata di Antonietta Gargiulo (che combatte tra la vita che avrà, terribile senza le figlie, e la morte che voleva infliggerl­e il marito carabinier­e) in un’intervista televisiva ha detto «non voleva denunciare perché avrebbe compromess­o il suo lavoro di carabinier­e, lo avrebbe danneggiat­o».

Lui aveva nello sguardo l’odio antico degli uomini verso le donne, quell’odio che si manifesta in mille forme dalla discrimina­zione più spicciola al rifiuto di accettare di avere difronte una persona libera, un odio che lo porterà ad uccidere le due figlie, e, lei, chiedeva aiuto ma preoccupan­dosi di non fargli del male.

Preoccupan­dosi del suo futuro, chiudendo nel privato quella violenza sperando di poterla, prima o poi, addomestic­are. Da una parte l’odio, dall’altra, a contrastar­lo a mani nude quel grumo di valori, parole, simboli che va in frantumi per la protagonis­ta dei «giorni dell’abbandono» e chele producono l’ azzerament­o di tutti i significat­i, lo smarriment­o assoluto, l’assenza di qualsiasi ancoraggio.

La perdita di senso. A questa debacle dell’abbandono la protagonis­ta usando una densità e una forza emozionale che danno il senso fisico di quel dolore, risponde ricostruen­dosi pezzo per pezzo consapevol­e che il lieto fine è molto adatto ai film ma poco alla realtà, gli uomini, spesso, troppo spesso, rispondono uccidendo.

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