Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I «giorni dell’abbandono» e la sofferenza delle donne
Illibro più bello della Ferrante non è «L’amica geniale» ma «I giorni dell’abbandono», un romanzo breve. La storia crudele di un abbandono. Il racconto incalzante di una relazione che si frantuma all’improvviso e senza un perché. O, forse, per mille, lontani e vicini, perché. Mille incrinature che deflagrano in un sol colpo e negano per sempre il senso di ciò che sembrava l’unico senso da dare alla propria vita, al proprio futuro. I figli, il cane, il marito, il lavoro lare tedi amicizie, le letture. Tutto si azzera diventa materiale opaco, muto.
Tutto perde capacità seduttiva e tutto affonda nel dolore atroce di una solitudine che appare come l’unico farmaco. Un farmaco che non chiede parole. Grumo che ammala e avvelena tutto intorno a sé. Amaro e pieno di disperazione.
E ai «Giorni dell’abbandono» vado ogni volta che, spesso, con dolosa stupidaggine vedo affrontato il tema della complicità femminile o quando fingendo una innocenza che a nessuno e nessuna è consentita, ci si chiede «perché non denunciano?». Perché accettano che la violenza dia un colore sinistro alle loro vite. Ci sono le leggi. I tribunali. Le forze dell’ordine. I nomi delle tante forme che il reato di violenza contro le donne assume. Perché donne spesso colte, forti, capaci di affrontare il cumulo di responsabilità che la società scarica colpevolmente sulle loro spalle, vivono da sole quel corpo a corpo con chi ha un primitivo desiderio di negarle, di negare loro qualsiasi forma di libertà e, soprattutto qualsiasi tentativo di rompere un legame ossessivo che toglie il fiato, toglie la forza. Provoca addirittura vergogna. Che cosa difendono con il loro silenzio? Che cosa nutre la loro «presunzione» di potercela fare da sole? Che idea hanno del loro ruolo di madre? L’avvocata di Antonietta Gargiulo (che combatte tra la vita che avrà, terribile senza le figlie, e la morte che voleva infliggerle il marito carabiniere) in un’intervista televisiva ha detto «non voleva denunciare perché avrebbe compromesso il suo lavoro di carabiniere, lo avrebbe danneggiato».
Lui aveva nello sguardo l’odio antico degli uomini verso le donne, quell’odio che si manifesta in mille forme dalla discriminazione più spicciola al rifiuto di accettare di avere difronte una persona libera, un odio che lo porterà ad uccidere le due figlie, e, lei, chiedeva aiuto ma preoccupandosi di non fargli del male.
Preoccupandosi del suo futuro, chiudendo nel privato quella violenza sperando di poterla, prima o poi, addomesticare. Da una parte l’odio, dall’altra, a contrastarlo a mani nude quel grumo di valori, parole, simboli che va in frantumi per la protagonista dei «giorni dell’abbandono» e chele producono l’ azzeramento di tutti i significati, lo smarrimento assoluto, l’assenza di qualsiasi ancoraggio.
La perdita di senso. A questa debacle dell’abbandono la protagonista usando una densità e una forza emozionale che danno il senso fisico di quel dolore, risponde ricostruendosi pezzo per pezzo consapevole che il lieto fine è molto adatto ai film ma poco alla realtà, gli uomini, spesso, troppo spesso, rispondono uccidendo.