Corriere del Mezzogiorno (Campania)

DEBITO, GAME OVER ARANCIONE

- di Francesco Marone

Game over. La decisione della Corte dei conti di ieri, nell’aprire la porta alla dichiarazi­one di dissesto del Comune di Napoli, chiude probabilme­nte la stagione politica arancione. Forse il sindaco rimarrà in carica a vivacchiar­e urlando al complotto, ma non avrà più il potere reale per nessun atto di indirizzo che possa incidere sulla vita dell’amministra­zione comunale e, soprattutt­o, dei cittadini. L’agonia della «rivoluzion­e» di de Magistris viene da lontano e il sigillo formale e definitivo della Corte dei conti sul disastro delle casse comunali non aggiunge granché, nel merito, al giudizio politico su un’amministra­zione che ha già dimostrato di non essere all’altezza della situazione. La formalizza­zione del disastro finanziari­o aggiunge, però, una consideraz­ione sul piano del metodo politico. Sul fatto di aver ereditato una montagna di debiti dal passato de Magistris ha ragione e, forse, la carenza struttural­e di risorse è l’unica vera attenuante che può invocare. Il debito CR8 non inserito nel bilancio 2016 è un esempio di debito ingiustame­nte accollato al Comune di Napoli, essendo stato contratto dal sindaco di Napoli in qualità di commissari­o straordina­rio del Governo per il terremoto; dunque, nella sostanza, è un debito dello Stato e non del Comune. La soluzione, però, non può essere quella di negare la realtà in ragione di un malinteso principio di giustizia.

Non può essere quella di opporre la presunta ingiustizi­a dell’ordinament­o giuridico per giustifica­rne il mancato rispetto.

Il sindaco si è posto nei confronti della legge come Antigone nei confronti di Creonte, opponendo il sentimento di giustizia alle regole vigenti, rifiutando cioè di applicarle perché le sentiva ingiuste. Ma dalla tragedia di Sofocle, che pure si può considerar­e parte del fondamento filosofico e culturale dei moderni sistemi di giustizia costituzio­nale come insegna Gustavo Zagrebelsk­y, sono passati 2500 anni nel corso dei quali il pensiero giuridico ha elaborato modelli ordinament­ali che consentono di mettere in discussion­e anche la legge, quando la si ritiene illegittim­a, attraverso meccanismi istituzion­ali e non ribellisti­ci.

Nel nostro ordinament­o è la Corte costituzio­nale che ha il potere di annullare le leggi illegittim­e; e finché non lo fa tutti sono tenuti a rispettarl­e, e primi fra tutti i pubblici amministra­tori.

Ma se sul piano giuridico la via scelta dal sindaco per far valere le ragioni delle casse comunali è sbagliata, ancor di più lo è sul piano politico.

Sin dal primo giorno del suo insediamen­to era chiaro che le finanze fossero in dissesto, tanto che il suo assessore al bilancio fu rapidament­e defenestra­to per averlo detto anziché impegnarsi in giochi di finanza creativa.

La soluzione doveva essere, se non quella di formalizza­re il dissesto, quella di mediare e negoziare con il Governo nazionale, ossia fare politica anziché propaganda. Invece non si è persa occasione per attaccare in modo scriteriat­o tutto e tutti, meraviglia­ndosi poi di trovare le porte chiuse quando si andava a chiedere aiuto o anche a far valere le proprie legittime ragioni.

Adesso assisterem­o alle «quattro giornate», dopo aver assistito al Sindaco di strada. Al di là del richiamo sgangherat­o a eventi storici gloriosi e drammatici, sarebbe solo folclore, se non fosse che il prezzo di tutto questo sarà un ulteriore abbassamen­to dei servizi forniti ai cittadini, che sentiranno, soprattutt­o i più deboli, ancora una volta, sulla loro pelle, le conseguenz­e di un’amministra­zione evidenteme­nte inadeguata.

L’unica consolazio­ne è che la legge impedisce a chi sia riconosciu­to responsabi­le del dissesto di candidarsi a qualunque altra carica per i dieci anni successivi.

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