Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Li costringevano a spacciare Tolti i figli ai boss
Venti anni ai capiclan del Pallonetto e alle mogli. Bimbi in strutture protette
«Mamma ci servono altre
NAPOLI buste per le palline, ne ho già chiuse ventisei». Era il 9 settembre del 2015 quando i carabinieri intercettarono una conversazione in un appartamento al secondo piano di via Pallonetto Santa Lucia. A parlare era una bimba di 12 anni, accanto a lei sua madre, moglie di un capoclan, che in assenza del marito perché in carcere, gestiva una «piazza» di spaccio. Le palline che aveva chiuso la bambina erano piene di cocaina e lei, come la sorella di 8 anni, aiutava i genitori a confezionare le sostanze stupefacenti da vendere nei fine settimana dei salotti della «Napoli bene». In alcuni casi erano proprio loro a dover consegnare le dosi anche nel cuore delle notte.
Ieri il giudice per le udienze preliminari Federica Colucci ha condannato tutti gli imputati a pene molto più alte rispetto alle richieste del pm
L’inchiesta nasce da intercettazioni ambientali: i piccoli confezionavano le dosi
della Dda, Alessandro D’Alessio. Un segnale chiaro ed inequivocabile. Le mamme e i padri che hanno reso «schiavi» i loro figli, non solo hanno avuto venti anni di reclusione a testa rispetto ai dieci che la procura invece aveva chiesto nella requisitoria dello scorso mese, ma hanno tutti perso la patria potestà. Sei i minorenni che sono stati intercettati nelle loro abitazioni mentre conversavano con i genitori, i cugini e gli zii e partecipavano attivamente al confezionamento e alla vendita della droga. Il Tribunale dei Minori di Napoli, il mese successivo alla retata del 17 gennaio del 2017 che aveva portato in carcere oltre 40 persone, con un provvedimento unico e molto «coraggioso» aveva allontanato dalle loro abitazioni tutti quei bambini, sospendendo per i familiari la patria potestà, che ieri è stata cancellata dalla sentenza del gip Colucci.
Adesso sono tutti in strutture «protette» lontane centinaia di chilometri dalla Campania e seguono ogni giorno un percorso di recupero con assistenti sociali, psicologi e insegnanti. Nessuno di loro riusciva a parlare in italiano e non avevano frequentato assiduamente la scuola dell’obbligo. Possono sentire telefonicamente, una sola volta al mese, i loro nonni, per non più di trenta minuti. Un provvedimento, quello del Tribunale dei Minori, per certi versi unico nel suo genere e che fece tanto discutere anche nelle settimane successive, adottato solo dal tribunale di Reggio Calabria, nei confronti di figli di ’ndranghetisti. Il magistrato Antonello Ardituro a febbraio presentò una mozione al plenum del Csm che fu votata all’unanimità per sollecitare il legislatore a studiare e supportare i provvedimenti adottati dai due Tribunali per arrivare a togliere in maniera definitiva i figli ai camorristi in casi di commissione di gravi reati. Secondo Palazzo dei Marescialli «fare parte di un’organizzazione mafiosa rappresenta un pericolo tale per la crescita dei bambini da giustificare l’allontanamento permanente dai genitori». Ieri il gip ha condannato a venti anni i fratelli Antonio e Ciro Elia, Adriana Blanchi, Giulia Elia, Anna De Muro e l’ex pentito Bruno Pugliese. Sono loro al vertice del clan che ancora detta legge tra i vicoli di Santa Lucia.