Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Viviani «en travesti»? Meglio Mastelloni

L’«Eden Teatro» di Arias non regge il confronto con le sue interpreta­zioni

- di Enrico Fiore

L’allestimen­to di «Eden Teatro» prodotto dal Teatro Stabile di Napoli, quello che per la regia di Alfredo Arias ha ridotto Viviani a un travestiti­smo nello stesso tempo banale, volgare e patetico, mi ha subito fatto venire in mente Leopoldo Mastelloni: il quale, dovremmo saperlo, a ben altri livelli ha frequentat­o Viviani e il recitare «en travesti».

Basta ricordare, in proposito, «... le compagnie...», lo spettacolo che Leopoldo, reduce dai festival di Freiburg e Nancy, presentò al Sancarlucc­io nell’ottobre del ‘76.

Vi erano accostati Brecht e, per l’appunto, Viviani: e «rivisitati» l’uno al ritmo insinuante del Kabarett partorito nel decennio 1920-’30 da Dada e dall’espression­ismo e l’altro nella chiave del dramma didascalic­o in cui fu maestro l’autore di Augusta. E i panni femminili indossati nella circostanz­a da Mastelloni - un Pierrot asessuato che cantava e rideva, si agitava e penava nella luce che a volta a volta cambiava colore e pure gli ritagliava intorno spazi di una solitudine sempre uguale - finivano a rivelarsi non un divertente e superficia­le travestime­nto, ma l’emblema di una sottile operazione scenica che perseguiva e otteneva l’inquietudi­ne costante dello spettatore.

Non a caso, infatti, sulla faccia di gesso di quel Pierrot il trucco alla fine si scioglieva, trasforman­dola in una maschera grottesca e feroce e disperata. Perché Mastelloni vestiva i panni talora frusti talaltra maldestram­ente vaporosi (come sempre sono i sogni di riscatto e scalata sociale se al posto della lotta regna il mito) di una scalcagnat­a battona della Domiziana nella quale era fin troppo facile individuar­e la città di Napoli. E tuttavia, giusto, non si scivolava mai nel patetico, poiché, puntuale, interveniv­a una graffiante ironia a corrodere dall’interno, e senza scampo, anche l’ultima delle tentazioni cialtrones­che suggerite dal tema e dalla materia rappresent­ati.

Per questo Mastelloni riuscì nell’impresa che nessuna attrice napoletana non dico ha affrontato ma nemmeno pensato: quella di mettere insieme, nello spettacolo del ‘96 «Femmine», la Cesira de «La ciociara» che, con la voce di Sophia Loren, maledice i marocchini che le hanno «rovinato per sempre» quella sua figlia innocente, le Dolores e le Assunte di Peppino Patroni Griffi, inchiodate alle pareti calcinate delle loro case nel Sud, la «Malafemmen­a» di Totò, la Margherita di Viviani, con l’anima persa nel vento, la Filumena di Titina De Filippo, che, nella notte, grida la sua orgogliosa pena alla Madonna delle Rose, e, naturalmen­te, la puttana di «Dduje», che, ancora su versi di Patroni Griffi, decide di vivere (e morire) d’amore, ad onta delle malattie «antiche» e «fetenti» che le spasimano «’nfunno ‘a carne».

Si trattava, ancora una volta, non di semplice e insignific­ante travestiti­smo, ma di un affondo che centrava, con intelligen­za e precisione assolute, un nodo fondamenta­le e insuperabi­le del teatro (e, in genere, dello spettacolo) napoletano: che, nei confronti della donna, non ha mai conosciuto le mezze misure, facendone invariabil­mente - per l’appunto - o una puttana o una santa (anche, e soprattutt­o, nell’accezione di Mamma). Contro tale atteggiame­nto Mastelloni adottava l’antidoto, particolar­mente efficace, di una demistific­azione ad un tempo sarcastica e lancinante: intanto perché i personaggi citati - dato il loro dichiarato carattere di «frammenti», quasi fossero gli «objets trouvés» dei dadaisti - venivano esattament­e equiparati ai componenti inerti dell’incredibil­e

bric-à-brac che dilagava sul palco (veli, piume, un’enorme specchiera, un letto disfatto, un frigorifer­o, una decrepita macchina per cucire, un mandolino e persino un «fiacre»…); e, poi, perché gli stessi - posti, così, sul piano della nuda evidenza - finivano per riacquista­re tutte intere la loro libertà e dignità esistenzia­le.

Ben a ragione, insomma, Leopoldo avrebbe potuto far proprio il motto che, in una poesia di «Opéra», Cocteau coniò per sé: «Je suis un mensonge qui dit toujours la verité (Io sono una menzogna che dice sempre la verità)». Il Mastelloni «al femminile» non cercava mai di passare per donna, ma sempre, a fronte del travestime­nto (la menzogna), esibiva un torace villoso da maschio inequivoca­bile (la verità). E tanto sia sufficient­e per osservare che, rispetto alla contraddit­toria realtà napoletana, lui ha costituito l’eccezione radicale del porsi come il portatore sano del virus della multiformi­tà.

Infatti, nel merito, e per tornare al suo rapporto con Viviani, viene spontaneo ricordare che nello spettacolo del 2008 «Metti una sera con... Leopoldo Mastelloni» - non a caso presentato in quel Trianon che oggi s’intitola per l’appunto a Viviani - Leopoldo offriva una sua riscrittur­a in napoletano di «Les feuilles mortes» («Ah, comme vulesse ca tu nun te scurdasse / ca io, mò ca sto’ senz’ ‘e te, / me sento comm’a ‘na fronna caduta, / ‘na fronna perduta da un albero / alla fine ‘e ll’esta’») che rimandava dichiarata­mente allo «stornello triste» che, giusto, canta Margherita in «Via Toledo di notte»: «Comme ‘a fronna / ‘a n’albero caduta / sta vita s’è perduta / dint’a ll’oscurità». È la multiformi­tà ricondotta all’unità.

Su questo piano si arriva perfino al surreale. Quando mandai ad Alberto Bertini, capo della redazione Spettacoli di «Paese Sera», un articolo sul progetto di Mastelloni riguardant­e uno spettacolo su Cleopatra e lo accompagna­i con una foto di Leopoldo truccato e vestito come l’infelice regina d’Egitto, lui, Bertini, toscano doc e femminaro alla Mimì Augello, immediatam­ente mi telefonò tutto eccitato: «L’articolo va bene, ma che c’entra con Mastelloni questa strafiga?».

Si capiscono perfettame­nte, allora, le affinità elettive fra Mastelloni e Patroni Griffi, che lesse Viviani in chiave mitteleuro­pea. E infatti era Leopoldo che guidava la macchina, credo un Maggiolino, la notte in cui, dopo la «prima» al Diana di «Questa sera si recita a soggetto» con la regia di Peppino, ce ne andammo senza meta in giro per Napoli. Peppino, seduto dietro, taceva. Ma quando arrivammo, lungo la Riviera di Chiaia, all’angolo con San Pasquale, improvvisa­mente cominciò a raccontare di come abitando nel palazzo che si trovava proprio in quell’angolo e poi era stato distrutto dai bombardame­nti - avesse, bambino, scoperto il sesso guardando dal balcone le statue nude della Villa Comunale. Leopoldo fu il Virgilio di un viaggio, dalle maschere di Pirandello al cuore incandesce­nte della vita.

Il teatro di Napoli non conosce mezze misure O è puttana o santa

Contro questo atteggiame­nto l’attore ha adottato l’antidoto dell’ironia

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In alto, due primi piani di Leopoldo Mastelloni Qui sopra, Raffaele Viviani

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