Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA POLITICA E IL RUOLO DEI SAPERI
Il fardello è di quelli gravosi. La Seconda Repubblica ha scaricato sul futuro del Mezzogiorno d’Italia la mancanza di un ceto politico di livello nazionale. Durante gli anni del sistema maggioritario, nessuna organizzazione politica si è preoccupata della formazione dei futuri quadri. Non lo ha fatto Forza Italia, limitandosi a istituire dei corsi di formazione le cui logiche sono desunte dal modello aziendalista che tentano di replicare; modello, questo, al quale lo stesso partito di Berlusconi guarda ormai con disillusione, dacché l’immagine satinata di un’organizzazione animata da giovani rampanti che si rispecchiano nel proprio leader si è infranta contro i volti noti dei notabilati locali. Non lo ha fatto, al di là dei familismi o delle clientele, nessuno dei partiti di sinistra, i quali hanno saputo dapprima esautorare, poi mortificare, infine condannare all’estinzione l’intero sistema di radicamento territoriale e di reclutamento che era comunque sopravvissuto agli esiti del crollo del Muro di Berlino. Pur tuttavia, sarebbe ingeneroso addossare alla miopia dei partiti tradizionali l’intera responsabilità del deficit di competenza politica che il Mezzogiorno d’Italia sconta. Esiste una dimensione sistemica del problema. Non è un caso che la schiacciante vittoria del M5s al Sud sia stata determinata, in misura rilevante, non dall’aver prospettato un insieme alternativo di capacità e competenze tali da sopperire alle mancanze o alle incapacità dei partiti tradizionali, bensì proprio dalla volontà del Movimento di presentarsi come una reazione contro i «politici di professione».
Tema caro, negli anni ’90, al primo Berlusconi.
La nozione di Politica, infatti, appare ormai disgiunta da quella di sapere, perché i meccanismi del consenso spesso operano a prescindere da qualsivoglia considerazione di merito circa le conoscenze specifiche dei candidati. E poco importa se la gestione della cosa pubblica o le scelte di governo, pressoché a tutti i livelli, richiedono saperi sempre più tecnici, impongono vincoli sempre più stringenti dei quali saper sfruttare gli interstizi, mostrano nodi sempre più aggrovigliati da dover districare. Il consenso va riconfigurandosi come la definitiva disgiunzione tra dissenso e assenso. Il dissenso funziona solo se non si riconosce mai nessun merito a nessuna azione di governo proposta, intrapresa, o portata a termine. Ma, simultaneamente, la scarsa competenza rischia di tradursi, consapevolmente o meno, in assenso a decisioni rispetto alle quali non si hanno né gli strumenti di decodifica adeguati né una visione integrata dei processi sui quali la Politica è chiamata a intervenire.
Contro questa tendenza alla depoliticizzazione della Politica, che non può che aggravare il deficit di rappresentanza dei bisogni del Mezzogiorno d’Italia, le strutture di produzione del sapere, le università, i centri di ricerca, potrebbero assumere un ruolo decisivo. Se volessero. Potrebbero, cioè, impegnarsi nel progetto di formare una nuova classe dirigente meridionale; dare vita a una politica dei saperi che serva l’interesse del Mezzogiorno e promuova la coesione tra Nord e Sud, tanto in Italia quanto in Europa. Per farlo, sarebbe utile non solo investire nelle scienze umane, politiche e sociali. Bisognerebbe ripensarle. Sottrarle, altresì, all’egemonia del modello anglosassone: iper-settorialità e risposta immediata ai bisogni del mercato. Ricalibrarle in termini di Scienze dello Stato: interdisciplinarità e prospettiva di lungo periodo. «Stato», in questa accezione, non starebbe certo a significare un ritorno al nazionalismo; identitario o metodologico. E neppure allo statalismo; economico o assistenziale. Rimanderebbe, piuttosto, all’insieme delle relazioni istituzionali entro le quali lo Stato si colloca: globale, internazionale, transnazionale, macro-regionale, nazionale e locale. Ma, pur volendo, fino a che punto questa università del Sud Italia è in grado di farsi carico di un tale fardello?