Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La mia odissea in corsia con un polso fratturato
Due giorni di attesa per un’operazione urgente. Il caso Intra moenia
Cadi da un albero, ti fratturi il polso e inizia un viaggio nel disastro della Sanità campana. Quella vera, che mette a repentaglio la salute, ogni giorno, di migliaia di persone. Non quella immaginata da chi ha ruoli decisionali e quotidianamente decanta successi evidentemente immaginari.
Domenica 26 marzo, poco dopo le 12.30: ingresso all’ospedale di Vico Equense, a pochi metri dal luogo dell’infortunio. Dopo una caduta il mio polso destro è molto gonfio e visibilmente deformato. La radiografia conferma il sospetto: frattura scomposta con frammenti di osso. «Ti devi operare, qui però ortopedia non c’è, vai a Sorrento, a Castellammare o a Napoli», consiglia un infermiere.
Spieghi che hai battuto anche la testa e forse sarebbe utile un esame più approfondito, ma il sanitario replica che ti vede lucido. Fascia il polso velocemente, pratica una iniezione di eparina e consegna il foglio di dimissioni. Si firma e si va via. Fuori, leggendo cosa c’è scritto apprendo di avere 80 battiti di frequenza cardiaca e 120 di pressione. Peccato che nessuno le abbia mai misurate.
Pomeriggio di domenica, seconda tappa, ospedale Loreto Mare. Dopo qualche storia al pronto soccorso con un sanitario che vorrebbe che tu andassi a prenotare una visita ortopedica presso il tuo medico di base ed al quale provi a spiegare che sei lì perché non ti hanno potuto curare in un altro nosocomio, una signora con il camice blu, molto gentile, mi porta in ortopedia. «Dove ti hanno fatto questa fasciatura?», domanda il medico. «All’ospedale di Vico», la risposta. Smorfia di disappunto. Guarda le radiografie, poi conferma «Sì, si deve operare». Pausa. «Qui però non abbiamo posto».
Sfascia il polso, pratica una manovra che inevitabilmente provoca dolore per ridurre la frattura, applica un gesso e mi congeda, non prima di avere raccomandato: «Non fare passare più di una settimana per l’intervento». Firmo il referto e leggo: «Il paziente rifiuta il ricovero. Si pratica ingessatura perché la fasciatura precedentemente applicata era incongrua».
Terza tappa, lunedì mattina ore 9.20: il pronto soccorso del Vecchio Pellegrini. Alle 11.30 finalmente riesco ad avere la carta che mi apre la strada alla consulenza con il medico del reparto Chirurgia della mano, al terzo piano. Scruta il foglio che accompagna la radiografia e dice «Si deve operare. Io però non ho posto». Il mio accompagnatore: «Intra moenia neppure?». Il dottore: «Intra moenia? Il posto ci sta». Nulla di illecito, perché in ogni ospedale ci sono stanze destinate esclusivamente a chi paga, ma resta la perplessità: un nosocomio che non ha spazio per chi debba operarsi, mantiene letti vuoti per chi sia disposto a pagare. Declino l’ipotesi intra moenia e torno al pronto soccorso al piano terra. Consegno il referto dove è scritto che la frattura va operata, ma non ci sta un letto. «Adesso - mi dice una infermiera al triage - inoltriamo domanda agli altri ospedali della regione. Se non c’è disponibilità, vi dovete sistemare qui e poi, appena si liberano letti, vi portiamo in reparto».
Inizia un’attesa indefinita. Le 13, le 14, le 15, le 16. Sulle sedie in plastica dove aspettiamo un cenno, una risposta, un parola conosco altri tre che necessitano di un intervento chirurgico e sono nella mia stessa situazione.
Stefano, un marittimo che si è fratturato il polso a bordo. Sergio, un trentottenne ucraino che si e reciso la falangetta mentre lavorava. Ha il dito stretto in una garza visibilmente sporca di sangue. Mattia, un ragazzo irpino che vive a Napoli e si è rotta la mano.
Alle diciassette chiedo notizie al personale del triage. Mi dicono che tutte le risposte degli ospedali consultati sono negative. Non c’è posto altrove. Restiamo sulle sedie in plastica davanti al pronto soccorso. Formalmente ricoverati, ma in realtà senza una branda. Penso che dovrei almeno chiedere che qualcuno mi somministri, come da prescrizione del Loreto Mare, l’eparina. In quella situazione, però, mi sembra difficile come scalare una montagna e lascio perdere. «Stanotte non andate via — suggerisce la dottoressa in servizio nel tardo pomeriggio — perché domani non trovereste più il posto». Si presidia il territorio, come soldati della fortezza Bastiani, in attesa che qualcosa accada. La notte trascorre all’interno del pronto soccorso, su una panca, con una temperatura insopportabile perché i termosifoni sono evidentemente al massimo. Medici ed infermieri, nonostante tutto, provano a garantire sollievo a chi sta male. Urla e lamenti. Martedì, le nove di mattina. La sala di attesa adiacente al pronto soccorso è già gremita. Ricomincia l’attesa. «La dottoressa ha detto che più tardi andiamo in reparto», m’informa Stefano. Non lo giurerei, ma lo spero.
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Sì, si deve operare entro una settimana, qui però non possiamo ricoverarla
Poi firmo il referto e leggo: il paziente rifiuta l’assistenza, fatta solo la fasciatura