Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Io, chirurgo guardo morire il San Paolo Ed è molto triste»
«Ho visto crescere quest’ospedale, vederlo morire è molto triste». A parlare è Antonio Sfarzo, medico chirurgo che il primo aprile andrà in pensione, ma che per 33 anni ha prestato servizio all’ospedale San Paolo di via Terracina.
Crede addirittura che l’ospedale stia morendo?
«Basta guardare come siamo ridotti, se le cose continueranno così difficilmente potrà esserci un futuro. Ed è un peccato, perché il San Paolo ha al suo interno personale che sarebbe invidiato in ospedali ben più blasonati».
Il problema sono i tagli?
«Il problema è il management che negli anni si è alternato, e non solo alla Asl. Spesso vengono adottate decisioni incomprensibili».
Ad esempio?
«Secondo i criteri Agenas l’unità operativa nella quale lavoravo era ai vertici, nell’ambito dell’Asl Napoli 1, per interventi di colicistectomia laparoscopica. Per tutta risposta, con il nuovo piano ospedaliero ci hanno tagliato i posti letto».
Avete mai provato ad opporvi al declino?
«Guardi, io sono sceso in piazza assieme a colleghi, infermieri e Oss. Non è servito a nulla».
Crede che la volontà sia di arrivare alla dismissione?
«Credo che non esista un progetto. La sensazione è di essere abbandonati a noi stessi. Del resto, in quale altro ospedale si va avanti senza primari?». Non ce ne sono?
«La chirurgia non vede un primario da 4 anni ormai. E non è un’eccezione, anche la medicina d’urgenza, la medicina generale, la ginecologia e la neurologia sono senza primari. Non penserete che un facente funzioni possa avere lo stesso peso».
In queste condizioni come si procede con gli interventi di elezione?
«Non lo chieda a me. Posso dirle che un tempo eravamo tra i migliori in molti campi, oggi quasi tutto è relegato all’emergenza. Credo che accettare di rinunciare a buona parte degli interventi programmati abbia segnato il principio della fine».
Quante sono le sedute programmate?
«Va bene se si riesce a farne due a settimana, cosa che avrebbe ripercussioni importanti sulle liste d’attesa se i pazienti continuassero a sceglierci come accadeva un tempo». Può spiegarsi meglio?
«I pazienti oggi non ci vedono più come una volta. Il nostro resta un ospedale sicuro, ma nell’immaginario collettivo non è certo la prima opzione. Mi piacerebbe che questo cambiasse».
Una delle lamentele riguarda la carenza di anestesisti.
«Il San Paolo è andato avanti per anni, e in parte ancora oggi succede, con quella che in gergo tecnico si chiama autoconvenzione. Vale a dire che per coprire le carenze di organico gli anestesisti prestavano servizio oltre l’orario in qualità di liberi professionisti. Questa formula, figlia per la verità di regole ottuse legate alla spending rewiev, ha comportato una spesa enorme. Ben più di quello che sarebbero costate delle assunzioni».
Dunque, scelte manageriali sbagliate?
«In parte sì, dipende da quello che si vuole offrire. Qualche anno fa si decise di non privilegiare l’attività ambulatoriale. Può essere una scelta giusta o sbagliata, ma il vero problema è quello di navigare a vista e fare continui dietrofront. Magari ad ogni cambio al vertice. Per me, prima che di carenza di personale si deve riflettere sulla carenza organizzativa».
Prima della pensione ha mai pensato di andare via?
«Fino a 5 anni fa questo era uno dei migliori presidi nei quali operare».
Se dovesse ragionare da paziente, quale ospedale sceglierebbe?
«Oggi credo che sceglierei il Cardarelli. Non perché altri ospedali non abbiano eccellenze, ma il Cardarelli è strutturato e pronto ad affrontare ogni emergenza».
Se oggi dovessi farmi curare da qualche parte non avrei dubbi: sceglierei soltanto il Cardarelli