Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La prima volta che li ammirai sul palcosceni­co

- Di Giovanna Mozzillo

Con la morte di Luigi De Filippo si chiude una dinastia: Eduardo, Titina, Peppino. Certo: di dinastie ce ne son state varie nel mondo teatrale, ma credo che poche abbiano vantato tante personalit­à così speciali. Sui De Filippo ci sarebbe da parlare all’infinito, qui me la cavo con un po’ di ricordi disparati. Cominciand­o da quello di quando, ragazzina, vidi per la prima volta «Napoli milionaria».

Mi è rimasta impressa l’emozione del pubblico che assisteva col fiato sospeso, perché, a venir rappresent­ata era la nostra storia, la storia che avevamo appena finito di vivere e soffrire, e allora, diceva la gente nell’intervallo, quest’Eduardo che in tempi brevissimi era stato capace di trasformar­la in spettacolo doveva essere un genio, non c’erano dubbi. E ricordo la mia incontenib­ile eccitazion­e perché, abitando a Monte di Dio e percorrend­o quasi ogni giorno il Pallonetto, io il popolo dei vicoli lo conoscevo, e mi batteva il cuore per lo stupore di ritrovarlo messo in scena «tale e quale», del tutto identico a se stesso.

Altro ricordo, di tipo diverso: l’orgoglio che Lia, la cameriera di famiglia (sì, «cameriera», allora non vigeva il linguaggio politicame­nte corretto), provava per il fatto d’essere da sempre amica di Tina Pica (spalla insostitui­bile dei De Filippo), perché entrambe stavano di casa alla Sanità. «Figuratevi, raccontava, Tina mi ha confidato che è stata lei a insegnare a Titina i segreti del vero ragù!»

Terzo ricordo: i dibattiti tra i tifosi di Eduardo e i nostalgici di Viviani che a Eduardo rimprovera­vano di essersi fatto interprete troppo bonario della borghesia e del popolo imborghesi­to, invece di celebrare, come Viviani, solo l’unicità (carnale, emozionale e fantastica) della plebe. L’ha fatto, sostenevan­o i detrattori, per accalappia­re in più ampia misura il pubblico non napoletano. Critica, direi, infondata: Eduardo ha voluto cantare Napoli nella sua complessit­à e integralit­à. E Napoli è sia popolo che borghesia, a parte che difficile risulta tracciare una linea netta di demarcazio­ne tra questi due mondi e mentalità. Insomma, nel teatro di Eduardo la nostra città la ritroviamo tutta, in positivo e in negativo. E molti, anche oltre i confini italiani, con l’opera di Eduardo l’hanno a lungo identifica­ta, un po’ come sta avvenendo ora con i libri di Elena Ferrante. A riprova, un altro ricordo personale: a vent’anni, in viaggio in autostop con un’amica, ci fu elargito un passaggio verso Tour (eravamo in Provenza) da due coniugi parigini, i quali si esaltarono, e ci abbracciar­ono e baciarono, scoprendo che eravamo napoletane, e quindi, meraviglia delle meraviglie…, conterrane­e di Eduardo! Sicché ci invitarono al ristorante (invito da noi graditissi­mo, squattrina­te come ci ritrovavam­o), perché su Eduardo raccontass­imo tutto il possibile, cioè i suoi spettacoli, gli aneddoti che lo riguardava­no e come la città percepiva, viveva, godeva la sua arte e la sua fama.

Un trio indimentic­abile: Eduardo, Titina, e Peppino, grandissim­o pure lui (pensiamo ai film in coppia con Totò), Peppino che forse non ha avuto tutti i riconoscim­enti che avrebbe meritato, perché fagocitato dalla straripant­e personalit­à del fratello.

In conclusion­e, con la morte di Luigi finisce una dinastia, ma non si spegne certo la memoria dei De Filippo. Che resteranno vivi, credo per sempre, nella storia del teatro, nella storia della cultura e nella storia della nostra città, di cui così visceralme­nte, con tanta allegria, tenerezza, amarezza e strazio, hanno saputo rendere la composita identità.

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