Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il gran rimpianto di non averli mai visti in scena

- Di Marco Marsullo

Proprio l’altro giorno, qui sul Corriere, ho scritto un pezzo su un calciatore di belle speranze che da giovane giocava nel Napoli e poi, causa un brutto infortunio, dieci anni dopo è finito sulle pagine di cronaca per una brutta faccenda. In quel pezzo parlavo di nomi e cognomi che echeggiano, o svaniscono, nelle menti delle persone. Questo cognome qui, De Filippo, è come dire: Napoli.

Uguale a come dire Totò, Maradona, Di Giacomo. Un biglietto da visita con il sottinteso. Se n’è andato anche Luigi De Filippo, l’ultimo erede della casa del teatro napoletana. Inutile aggiungere altro: si chiude una storia. Maestosa, intensa, partenopea, e quindi nazionale, europea, mondiale.

E io che di mestiere faccio lo scrittore, quindi racconto storie, a volte mi maledico per il limite anagrafico (ho trentatré anni) che mi ha impedito di assistere a Eduardo, dal vivo, in un teatro. Chiaro; ho divorato le sue commedie, ho rubato, ho imparato, ho riso e pensato. Come con Totò e Massimo Troisi. È inevitabil­e che tra le mie dita di scrivano scorra un po’ di loro. E ne sono fiero.

Ma il rimpianto di non aver potuto vivere Eduardo sulla mia pelle, sedermi su una poltrona di un teatro al buio, gustarmi le sue fossette scavate e i suoi silenzi tremolanti, mi tormenta. È quello che succede a noi ragazzi di oggi, quelli anagrafica­mente nel limbo, spettatori impotenti del passaggio di una Napoli che sfornava gioielli a una Napoli da rifondare. Culturalme­nte parlando, si capisce. Ho visto Luca, una volta, recitare «Questi fantasmi». È stato ipnotico pensare che quell’uomo era il seme di un amore plateale e cumulativo. Il padre, non solo lo aveva messo al mondo per sé, e la sua famiglia, ma anche per noi tutti. Affinché qualcosa di lui, di loro, dei De Filippo, sgorgasse ancora forte tra le vene dei napoletani. E il lascito è clamoroso. Non solo come talento e commedie, quello è il minimo. Ciò che resta di questo nome è la gentilezza e l’armonia con la quale hanno cambiato, per sempre, il modo di vivere di chi la ha amati e osservati. Questo è ineffabile, quasi. Difficile spiegarlo a parole, scritte poi. Più che altro: queste parole qui sono ciò che rimane di loro.

Un po’ come le canzoni di Pino Daniele che echeggiava­no in metro durante l’anniversar­io della sua scomparsa. Perché siamo un popolo che, non solo non dimentica, ma trasferisc­e il proprio Dna silenziosa­mente. Da spettatore assente di quelle commedie, mi auguro che ciò accada per me, sempre, e per i miei figli, se mai dovessi averne. Figli di un’eredità garbata e napoletana, avvezzi alla commedia della risata e del dramma. Figli appassiona­ti e pieni di curiosità. Figli napoletani, forse, più sempliceme­nte. Come siamo tutti noi, dei De Filippo. Anche se non ci siamo mai seduti di fronte a loro tra le poltrone zeppe e affascinat­e, in quella muta preghiera che è l’ascolto dell’arte di un’opera teatrale.

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