Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il gran rimpianto di non averli mai visti in scena
Proprio l’altro giorno, qui sul Corriere, ho scritto un pezzo su un calciatore di belle speranze che da giovane giocava nel Napoli e poi, causa un brutto infortunio, dieci anni dopo è finito sulle pagine di cronaca per una brutta faccenda. In quel pezzo parlavo di nomi e cognomi che echeggiano, o svaniscono, nelle menti delle persone. Questo cognome qui, De Filippo, è come dire: Napoli.
Uguale a come dire Totò, Maradona, Di Giacomo. Un biglietto da visita con il sottinteso. Se n’è andato anche Luigi De Filippo, l’ultimo erede della casa del teatro napoletana. Inutile aggiungere altro: si chiude una storia. Maestosa, intensa, partenopea, e quindi nazionale, europea, mondiale.
E io che di mestiere faccio lo scrittore, quindi racconto storie, a volte mi maledico per il limite anagrafico (ho trentatré anni) che mi ha impedito di assistere a Eduardo, dal vivo, in un teatro. Chiaro; ho divorato le sue commedie, ho rubato, ho imparato, ho riso e pensato. Come con Totò e Massimo Troisi. È inevitabile che tra le mie dita di scrivano scorra un po’ di loro. E ne sono fiero.
Ma il rimpianto di non aver potuto vivere Eduardo sulla mia pelle, sedermi su una poltrona di un teatro al buio, gustarmi le sue fossette scavate e i suoi silenzi tremolanti, mi tormenta. È quello che succede a noi ragazzi di oggi, quelli anagraficamente nel limbo, spettatori impotenti del passaggio di una Napoli che sfornava gioielli a una Napoli da rifondare. Culturalmente parlando, si capisce. Ho visto Luca, una volta, recitare «Questi fantasmi». È stato ipnotico pensare che quell’uomo era il seme di un amore plateale e cumulativo. Il padre, non solo lo aveva messo al mondo per sé, e la sua famiglia, ma anche per noi tutti. Affinché qualcosa di lui, di loro, dei De Filippo, sgorgasse ancora forte tra le vene dei napoletani. E il lascito è clamoroso. Non solo come talento e commedie, quello è il minimo. Ciò che resta di questo nome è la gentilezza e l’armonia con la quale hanno cambiato, per sempre, il modo di vivere di chi la ha amati e osservati. Questo è ineffabile, quasi. Difficile spiegarlo a parole, scritte poi. Più che altro: queste parole qui sono ciò che rimane di loro.
Un po’ come le canzoni di Pino Daniele che echeggiavano in metro durante l’anniversario della sua scomparsa. Perché siamo un popolo che, non solo non dimentica, ma trasferisce il proprio Dna silenziosamente. Da spettatore assente di quelle commedie, mi auguro che ciò accada per me, sempre, e per i miei figli, se mai dovessi averne. Figli di un’eredità garbata e napoletana, avvezzi alla commedia della risata e del dramma. Figli appassionati e pieni di curiosità. Figli napoletani, forse, più semplicemente. Come siamo tutti noi, dei De Filippo. Anche se non ci siamo mai seduti di fronte a loro tra le poltrone zeppe e affascinate, in quella muta preghiera che è l’ascolto dell’arte di un’opera teatrale.