Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Pasta e patate
Dalla Val di Noto in Sicilia, colonia barocca della «fuffa» milanese, dove sono incappato in semplici acque minerali bollate con enfasi come «amabilmente frizzanti», fino alla esagerata retorica in certe zone della Puglia nel «raccontarti» un calice di vino, passando per quel bue rosso della Sardegna servito senza pane ma con il lungo afflato di un untuoso «ecco la sua emozione». Eppure, benché nella mia formazione di scrittore risuoni incessante il richiamo pasoliniano alla
tribù, devo ammettere di aver finora guardato a questo Sud in cerca d’autore con sguardo sostanzialmente bonario.
Nutro sincera compassione e in taluni casi ammirazione per i cercatori di progresso, anche quando non ne condivido i metodi e le finalità. Anche perché, per certi versi, mi è sempre parso di provenire da una città – Napoli – che a mio personale modo di vedere aveva il problema opposto. Altro che «fuffa» milanese o americana. Nella ricerca un po’ sgangherata della modernità, ho sempre valutato che dalle nostre parti il problema fosse che i napoletani facessero un po’ troppo i napoletani, esaltando ben al di là del giusto e del conveniente certe caratteristiche tipiche (o presunte tali) dal richiamo vagamente passatista.
Perlopiù giocando con etichette utili solo a chi le appiccica per trarne
un profitto e ai pochi indigeni che indossandole han da guadagnarci giusto il tempo della recita, prima di spegnersi come marionette in attesa del prossimo cliente. Maria De Filippi e i suoi ospiti a «C’è posta per te», insomma, cos’altro sono se non l’esatta manifestazione di questa strabica alleanza? D’altro canto, chi mastica la polvere di Partenope ogni giorno sa benissimo che simili esempi abbondano nella nostra città. Dalla cucina al teatro, dal web alla letteratura, dal cinema alle friggitorie. Napoli è un teatro sempre aperto, dove i napoletani amano recitare soprattutto una parte: quella di se stessi.
Quindi fa davvero strano quanto mi è accaduto l’altro giorno, dopo aver ordinato la solita pasta e patate con la provola nella solita tranquilla trattoria che frequento da vent’anni. E cioè quando una giovane e forbita cameriera
in grado di conversare con i turisti stranieri – e purtroppo non più l’amatissimo donnone di un tempo, la cui presenza in sala di norma veniva annunciata da una folata di impanatura fritta – mi ha servito augurandomi una «buona esperienza». Sulle prime l’ho osservata un po’ stranito. Per un attimo mi è tornata in mente la nonna – che come molti antichi partenopei aveva il cuore meccanicamente tripartito in margherita, marinara e tutt’al più ripieno – quella volta che in un ristorante della penisola sorrentina, a un temerario cameriere avanzante la proposta di una pizza gourmet, rispose con un commovente: «A soreta».
Dopodiché, benché sia anch’io conscio che il cibo è un’esperienza, alla cameriera ho sorriso come per dirle: ti prego, non facciamo i milanesi in Val di Noto, non costringermi a diventare nostalgico di un più che sufficiente «buon appetito», questa è solo un pasta e patate con la provola. Almeno per noi, almeno per i napoletani. Ma sono rimasto zitto. Perché nel volto vitreo della cameriera ho intravisto l’ennesima, tardiva sconfitta del meridionale costretto a usare un linguaggio che non fa più scopa con la realtà e che è a sua volta è diventato «fuffa». Smarrendo così l’ultimo baluardo delle insuperabili virtù di noi gente a Sud: la capacità di usare una lingua diretta, reale, viva. E finendo per aderire, ancora una volta, all’imperdonabile mutazione che non mi pare punti a nessun luminoso progresso, quanto a un vetusto modo di «promuovere il territorio» e a trasformarci nelle macchiette del futuro. Per la cronaca: la pasta e patate con la provola era buona ma non più buonissima. Come quando era solo un piatto e non un’esperienza.