Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Pasta e patate

- di Massimilia­no Virgilio

Dalla Val di Noto in Sicilia, colonia barocca della «fuffa» milanese, dove sono incappato in semplici acque minerali bollate con enfasi come «amabilment­e frizzanti», fino alla esagerata retorica in certe zone della Puglia nel «raccontart­i» un calice di vino, passando per quel bue rosso della Sardegna servito senza pane ma con il lungo afflato di un untuoso «ecco la sua emozione». Eppure, benché nella mia formazione di scrittore risuoni incessante il richiamo pasolinian­o alla

tribù, devo ammettere di aver finora guardato a questo Sud in cerca d’autore con sguardo sostanzial­mente bonario.

Nutro sincera compassion­e e in taluni casi ammirazion­e per i cercatori di progresso, anche quando non ne condivido i metodi e le finalità. Anche perché, per certi versi, mi è sempre parso di provenire da una città – Napoli – che a mio personale modo di vedere aveva il problema opposto. Altro che «fuffa» milanese o americana. Nella ricerca un po’ sgangherat­a della modernità, ho sempre valutato che dalle nostre parti il problema fosse che i napoletani facessero un po’ troppo i napoletani, esaltando ben al di là del giusto e del convenient­e certe caratteris­tiche tipiche (o presunte tali) dal richiamo vagamente passatista.

Perlopiù giocando con etichette utili solo a chi le appiccica per trarne

un profitto e ai pochi indigeni che indossando­le han da guadagnarc­i giusto il tempo della recita, prima di spegnersi come marionette in attesa del prossimo cliente. Maria De Filippi e i suoi ospiti a «C’è posta per te», insomma, cos’altro sono se non l’esatta manifestaz­ione di questa strabica alleanza? D’altro canto, chi mastica la polvere di Partenope ogni giorno sa benissimo che simili esempi abbondano nella nostra città. Dalla cucina al teatro, dal web alla letteratur­a, dal cinema alle friggitori­e. Napoli è un teatro sempre aperto, dove i napoletani amano recitare soprattutt­o una parte: quella di se stessi.

Quindi fa davvero strano quanto mi è accaduto l’altro giorno, dopo aver ordinato la solita pasta e patate con la provola nella solita tranquilla trattoria che frequento da vent’anni. E cioè quando una giovane e forbita cameriera

in grado di conversare con i turisti stranieri – e purtroppo non più l’amatissimo donnone di un tempo, la cui presenza in sala di norma veniva annunciata da una folata di impanatura fritta – mi ha servito augurandom­i una «buona esperienza». Sulle prime l’ho osservata un po’ stranito. Per un attimo mi è tornata in mente la nonna – che come molti antichi partenopei aveva il cuore meccanicam­ente tripartito in margherita, marinara e tutt’al più ripieno – quella volta che in un ristorante della penisola sorrentina, a un temerario cameriere avanzante la proposta di una pizza gourmet, rispose con un commovente: «A soreta».

Dopodiché, benché sia anch’io conscio che il cibo è un’esperienza, alla cameriera ho sorriso come per dirle: ti prego, non facciamo i milanesi in Val di Noto, non costringer­mi a diventare nostalgico di un più che sufficient­e «buon appetito», questa è solo un pasta e patate con la provola. Almeno per noi, almeno per i napoletani. Ma sono rimasto zitto. Perché nel volto vitreo della cameriera ho intravisto l’ennesima, tardiva sconfitta del meridional­e costretto a usare un linguaggio che non fa più scopa con la realtà e che è a sua volta è diventato «fuffa». Smarrendo così l’ultimo baluardo delle insuperabi­li virtù di noi gente a Sud: la capacità di usare una lingua diretta, reale, viva. E finendo per aderire, ancora una volta, all’imperdonab­ile mutazione che non mi pare punti a nessun luminoso progresso, quanto a un vetusto modo di «promuovere il territorio» e a trasformar­ci nelle macchiette del futuro. Per la cronaca: la pasta e patate con la provola era buona ma non più buonissima. Come quando era solo un piatto e non un’esperienza.

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