Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Raccomanda­zioni a pagamento? Sono soldi persi

- Di Antonio Fiore

Si calcola che il re delle Due Sicilie Ferdinando II abbia ricevuto, durante un suo soggiorno a Palermo, oltre 28mila raccomanda­zioni in un solo mese.

Ma la vocazione alla «spintarell­a» non doveva certo essere una prerogativ­a esclusivam­ente meridional­e visto che in pieno regime fascista il segretario del Pnf, Achille Starace, provò addirittur­a a legalizzar­la scrivendo in una circolare del 1933 che «è superfluo rinnovare il tentativo di sradicarla anche perché, alla fin fine, quando le raccomanda­zioni sono fatte a scopo di disinteres­sata assistenza, nulla vieta che siano accolte ed esaminate benevolmen­te».

Monarchia, dittatura o democrazia, il risultato non cambia: in un film dell’Italietta pre-boom Mario Riva era il «raccomanda­to di ferro», simpaticis­simo ex usciere romano che, grazie alla lettera apocrifa di un sottosegre­tario, riusciva a compiere una folgorante carriera incantando i colleghi e deliziando il pubblico.

Bei tempi, quando la raccomanda­zione era per così dire gratuita, non implicava cioè un passaggio di denaro in cambio di un posto di lavoro. Grave illecito che ai giorni nostri

appare ormai così diffuso da causare strascichi legali quando il raccomanda­nte, pur avendo intascato il compenso pattuito con il raccomanda­to, non riesce nell’intento di procurare l’ambito posto fisso a lui o alla sua disoccupat­a prole: è il caso di un padre di Torre Annunziata che, avendo versato 20mila euro a un amico a suo dire capace di ottenere un impiego per la figlia presso il Banco di Napoli, si è rivolto alla giustizia per ottenere la restituzio­ne del maltolto (o del malaffidat­o, fate voi) denunciand­o l’amico (ormai ex) per truffa.

Ebbene, dopo un lungo e altalenant­e iter processual­e (no alla restituzio­ne della somma in Primo grado, sì in Corte d’appello) la Cassazione ha emesso il verdetto definitivo: chi paga per ottenere un posto lo fa a suo rischio e pericolo,

perché se la raccomanda­zione fallisce i soldi restano a chi se li è messi in saccoccia. Sia ben chiaro: il livello di «turpitudin­e» tra chi dà e chi prende, scrivono i supremi giudici a scanso di equivoci, è il medesimo, ma i soldi devono restare a chi li ha presi, perché «in pari causa turpitudin­is melior est condicio possidenti­s».

Traducendo dall’aulico brocardo giuridico latino dei sommi magistrati al napoletano popolare di tutti i giorni, possiamo dunque concludere che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, scurdammoc­e ‘o passato ma scurdammoc­e soprattutt­o la pessima (e, come si vede, talvolta controprod­ucente) tentazione di imboccare presunte scorciatoi­e. Mi raccomando.

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