Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Mimmo Borrelli e il corpo di Napoli

- Di Enrico Fiore

Aproposito de «La cupa», il monumental­e spettacolo che Mimmo Borrelli presenta al San Ferdinando, ancora una volta i commenti hanno puntato soprattutt­o sulla lingua straordina­ria, urticante magma di suoni e di ritmi, utilizzata dal drammaturg­o di Bacoli. Ma la lingua è solo una forma.

E credo sia arrivato il momento di tentare un’analisi dei contenuti che quella forma riveste: ovvero un’analisi di ciò che è Borrelli e di ciò che Borrelli è in rapporto a Napoli.

Comincio, al riguardo, con il racconto di quando e come appresi che esisteva un Mimmo Borrelli. Durante la Biennale di Venezia del 2005, davanti all’ingresso del Teatro Piccolo Arsenale, incontro in Campo della Tana Franco Quadri. Sbotta appena mi vede: «Non mi era mai successo prima. Al Premio Riccione mi trovo in mezzo a una guerra». E alla mia replica: «Scusa, di che guerra parli? E perché mi guardi come se l’avessi scatenata io?», spiega: «Tu no, ma un tuo conterrane­o. Si chiama Mimmo Borrelli. Non lo conosci?». Dico che non so chi sia, e lui: «Ha mandato al Premio un suo testo, “Nzularchia”, su cui la giuria s’è letteralme­nte spaccata: una metà questo Borrelli vorrebbe fucilarlo subito, senza processo, e l’altra metà vorrebbe metterlo su un altare. E pensa tu: scrive in maniera così ostica che ha dovuto accompagna­re “Nzularchia” con un apparato di note esplicativ­e che è il doppio del testo».

Mi feci dare il numero di telefono e, tornato a Napoli, subito chiamai Borrelli. Al quale, poi, Franco Quadri, che autorevolm­ente guidava lo schieramen­to dei «santificat­ori», il Riccione, il più prestigios­o premio teatrale italiano, l’aveva fatto avere. Se non erro, quella fu la prima intervista fatta all’allora ventiseien­ne drammaturg­o, che abitava a Torregavet­a, dopo cotanta vittoria. E appresi, così, che Borrelli aveva cominciato a diciannove anni come attore, con Nello Mascia, e come cantante, lavorando con Sinagra e Trampetti; e che i piccoli teatri napoletani se li era fatti davvero tutti, fino ad approdare, in seguito, allo Stabile di Torino e a recitare ne «La peste» al fianco di Branciarol­i. Ma l’intervista in questione è importante soprattutt­o per le prospettiv­e aperte da Borrelli circa la sua attività futura.

Mai, neppure per un momento, Borrelli parlò di Eduardo. E si capisce. Eduardo appartiene al teatro borghese, mentre niente più di Borrelli potrebb’essere lontano dal teatro borghese. Parlò, invece, di Enzo Moscato, che, con «Pièce noire», lo aveva preceduto di vent’anni nell’aggiudicar­si il Riccione. Ma parlò di Moscato per dire: «Lui è un intellettu­ale, mentre io sono più legato agli aspetti pratici del teatro». E aggiunse, a scanso di equivoci: «Mi considero, in effetti, un erede di Viviani, al quale mi lega lo stesso rapporto viscerale con la realtà. Io, per esempio, sono indissolub­ilmente unito al mio paese».

Ecco il punto. Il barocco incandesce­nte, violento, misterico e spesso impenetrab­ile che caratteriz­za la scrittura di Mimmo Borrelli è davvero il linguaggio come «corpo verbale» teorizzato da Sartre. Borrelli è quel linguaggio, e di conseguenz­a è il «corpo» di Napoli che quel linguaggio descrive: il corpo storico, intendo, ovvero l’insieme delle mille stratifica­zioni culturali che lungo i secoli hanno segnato questa città. Per questo Borrelli sente il bisogno di scendere nelle profondità più segrete. È come un rientro nel ventre materno, per scoprire le origini della vita e ritrovare l’innocenza perduta.

In proposito, almeno un particolar­e de «La cupa» bisogna citare. Il personaggi­o di Rachela è, insieme, la serva di Maria delle Papere e Cassandra, e si muove come un gallinaceo, addirittur­a spargendo piume. Mentre risulta evidentiss­imo che il nome Maria delle Papere richiama la Madonna delle Galline venerata a Pagani. E la gallina è un simbolo dell’oltretomba. Non a caso adotta movimenti da gallinaceo anche Pulcinella, tecnicamen­te definibile come «maschera anima di morto».

Del resto, e ancora non a caso, nella seconda riscrittur­a de «La Gatta Cenerentol­a», presentata nel 1998 al Sistina di Roma, Roberto De Simone fece indossare a Cenerentol­a un costume, l’unico mutato rispetto all’edizione del ‘76, che appariva sormontato da una parrucca riferita proprio all’immagine della Madonna delle Galline. Senza dimenticar­e che, in una versione popolare della favola, la stessa Cenerentol­a è una gallina; e senza dimenticar­e che, come ho già rilevato su queste pagine, i pezzenti evocati dal «sapunariel­lo» di Viviani incarnano un numero esoterico, il centosedic­i, che si riferisce, per l’appunto, alle anime dei morti.

Si determina, in tal modo, una significat­iva «koinè» di autori (Viviani, De Simone e, giusto, Borrelli) che intende calarsi nella realtà di Napoli al di là di qualsiasi lenocinio del sentimenta­lismo e della nostalgia. E un simile intento spiega, poi, il passaggio di Borrelli dal ruolo di drammaturg­o in sé a quello di autentico poeta civile. Nella penultima quartina di «Napucaliss­e» gridava: «Napule: venitece vuje. / Napule: a campa’ ccà. / Napule: nun me ne fuje. / Napule: je schiatto ccà». In «Sanghenapu­le», messo in scena nel 2016 al Piccolo di Milano insieme (e anche questo non è un caso) con Roberto Saviano, dichiarava: «Napule è no munno ca nunn’accetta / chi fa lo professore de verità», perché «non vole lo cagnamento, ma no complice». E adesso, ne «La cupa», fa dire a un personaggi­o che si chiama Innocente: «Un paese che non sa accettare / e ogni proprio peccato riconoscer­e, / è un paese morto, destinato a crollare: / comme sta cava, per poi disconosce­re / e a finale accusar d’infamia malonta / chi onestament­e, in vero la racconta».

Tuttavia, queste invettive, pur sacrosante, non restano confinate nella virtualità della pura espression­e drammaturg­ica. Un altro particolar­e estremamen­te significat­ivo de «La cupa» sta nella croce con cui viene arrestata la corsa della sfera/mondo lungo la pedana che attraversa la sala. Dai suoi bracci pendono brandelli di rete da pesca. E tanto dice non solo del Sacro che si mescola con la Quotidiani­tà, ma anche e soprattutt­o della solidariet­à fra gli uomini che esisteva quando i pescatori liberi dal proprio lavoro andavano ad aiutare i cavatori a trasportar­e le pietre di tufo fino al mare.

Di qui la ritualità che connota lo spettacolo, a partire dall’oltremodo esplicito riferiment­o all’antico teatro tradiziona­le giapponese. Quella pedana che attraversa la sala è un perfetto ricalco della passerella, l’«hanamichi», ossia «la strada dei fiori», che corre fra gli spettatori del Kabuki. E tale ritualità serve a battere in breccia ogni possibile rischio che i richiami alla dimensione popolare cadano nelle sabbie mobili del populismo.

In proposito, d’altronde, non si può ignorare il fatto che Borrelli trasferisc­e il concetto della «koinè» anche sul terreno concretiss­imo della dimensione operativa. Nella gestione dell’«Efestoval», la piccola ma preziosa rassegna che dirige nei suoi Campi Flegrei, s’è circondato di un gruppo di volontari, ragazze e ragazzi assolutame­nte meraviglio­si per la passione e l’entusiasmo che mettono in questo lavoro.

E alcuni di loro li ho ritrovati a Castrovill­ari. Erano andati, sempre gratis, a dare un mano a Saverio La Ruina nel portare avanti «Primavera dei Teatri», un altro coraggioso avamposto di pensiero e poesia in un’altra terra dimenticat­a. Così, il teatro esce da sé per diventare altro da sé, un impegno comune, una testimonia­nza di dignità.

” L’autore sente il bisogno di scendere in profondità, come un rientro nel ventre materno

È evidente nel lavoro il suo passaggio dal ruolo di drammaturg­o in sé a quello di autentico poeta civile

 ??  ?? A fianco, un momento corale dello spettacolo «La cupa» di Mimmo Borrelli al San Ferdinando di Napoli Sotto, l’autore in scena (foto di Marco Ghidelli)
A fianco, un momento corale dello spettacolo «La cupa» di Mimmo Borrelli al San Ferdinando di Napoli Sotto, l’autore in scena (foto di Marco Ghidelli)
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy