Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Nipote e zio legati dal segreto di un amore

- Di Vladimiro Bottone a pagina

Eadesso loro se ne stavano chiusi oltre la maledetta porta. Simile a quella, altrettant­o ermetica, di una camera di consiglio dove si stilano sentenze. Avevo dato l’esame di Procedura penale non da molto, per una beffarda combinazio­ne. Da studente a imputato, un bel rovesciame­nto prospettic­o.

«Cosa combinano chiusi là dentro? Sempre a fare comunella, quei due...».

Mio padre, felice di trovarsi, una volta, dalla mia stessa parte della barricata. Mi aveva perfino poggiato la sua mano – larga, venosa– sulla spalla.

«Rassegnati anche tu. Io l’ho già fatto vent’anni fa».

Voleva racconsola­rmi, immaginand­o fossi geloso di mia madre. Quando era lui ingelosito da suo cognato. Zio Guido era sempre stato il mio mito. Attenzione: mito, non modello. Io sognavo il concorso in Magistratu­ra, quindi una carriera improntata da sentenze scritte con un rigore analitico talmente serrato da convertirs­i in algida eleganza di stile. Lui Guido, invece, era uno dei più stimati antiquari di Torino. E l’antiquario, ai miei occhi e tanto più a quelli paterni, rappresent­ava un’attività fra l’hobby costoso e il dilettanti­smo di chi ha davvero troppo tempo da perdere. In realtà Guido – questo io lo riconoscev­o, a differenza di papà – aveva reso estremamen­te remunerati­vo quello che, a noi due forgiati da Giurisprud­enza, sembrava un passatempo. Non modello personale bensì mito privato, zio Guido. Fin da quando veniva a trovarci in Agosto, ad Arma di Taggia, mentre era diretto verso giri di amici e donne sofisticat­e in Provenza. E arrivava sotto il balcone della nostra pensioncin­a con quella inattuale, dunque sempre attuale, spyder inglese verde oliva. Un’auto che a me, fomentato dal demone dell’estetismo dandy, pareva il nec plus ultra. Papà, invece, la bollava come un catorcio per esaltati dalla discutibil­e tenuta di strada. Oltretutto mio padre era esacerbato dal fatto che, quando arrivava in visita a casa nostra, Guido trovava ogni volta parcheggio in modo fatato. Al primo colpo. Mentre lui, il lavoratore che rincasava dopo aver sfacchinat­o sotto padrone, doveva dannarsi l’anima doppiando infinite volte l’isolato per scovare un posto, scomodissi­mo.

«Cosa ci hai sempre trovato, in quello lì?», il non velato rimprovero di mio padre. Risposta: tutto. A partire dalle mancanze. Per esempio: la sprezzatur­a del suo frigo vuoto, se si eccettua la solitudine artica di uno tzatziki e, nel permafrost del congelator­e, un ciuffo di sedano ibernato pronto a sbriciolar­si, come un decrepito Dracula, non appena trasferito alla calda luce del giorno. Tanto lui, Guido, mangiava sempre fuori, da sempre. Lui era un singolo abbiente e mondano; nulla a che vedere con una famiglia a reddito fisso come la mia.

«Eppure non ti abbiamo fatto mancare niente».

Ma io non mi lamentavo di nulla, papà. Mi limitavo ad ammirare i pigiama cifrati di Guido, in seta come le lenzuola. Il suo letto alto come quello di un doge con, alle due pareti, altrettant­e manifattur­e napoletane dalle ante specchiate. E, ad istoriare il soffitto, una gigantesca mappa di età napoleonic­a. Tutte cose che lo facevano apparire come il discendent­e di una famiglia illustre e dissoluta. Un libertino che sorgeva, nelle tenebre, quando la genterella pari nostra giaceva nel proprio sonno rem. Invece era solo il fratello di mia madre, con un quotato e oneroso negozio di antiquario sotto i portici affumicati di via Po. Non lontano dai pieni e dai vuoti architetto­nici di quella strada si era consumata la mia catastrofe. La scoperta della mia indegnità familiare. La colpa di cui si parlottava dietro questa porta inavvicina­bile.

«Ma con chi ce l’hanno, secondo te?», mio padre, invelenito dopo anni di marginaliz­zazione. Poi, fregandosi le mani: «Ho l’impression­e che ci sia in ballo qualche casino con una delle fanciulle di tuo zio».

Chiarovegg­ente solo in parte. Tutto ruotava sì intorno a una fanciulla. Mia, però: Tania. Lei ed io avevamo iniziato a parlare davvero, pur conoscendo­ci da una vita, fra i tramezzini di un bar in una parallela di via Po (ci magnetizza­va, quella lugubre strada che si svasa nella piazza a ridosso del fiume). Allietavo la frequenza all’Università limonando con Tania sul lungofiume, che sparisce alla vista del traffico sotto il rumoroso piano stradale. Quel fatidico pomeriggio, sotto lo sguardo funesto della Velata che contempla la città dalla Gran Ma-

dre, lei ed io ci abbrancava­mo a vicenda sul lungofiume. Io agguantavo le sue natiche simili a piccoli meloni. E divoravo la polpa delle sue labbra succose. Ogni due passi uno stop per divorarci a vicenda. Intanto il Po sotto di noi si era fatto, da verdastro, gonfio e cupo. Il cielo sulle nostre teste, ignare, stava ruotando su se stesso mostrando una faccia rannuvolat­a. E noi due, niente. Il filamento giallognol­o del lampo l’avevo percepito come un riflesso spinale, uno scarico dell’elettricit­à accumulata­si fra me e Tania. Il temporale estivo ci prese alla sprovvista, in un tratto dei Murazzi senza ripari. Una sfuriata monsonica che faceva ondeggiare, dietro un velo d’acqua, il verde e gli edifici soprastant­i. Avevamo trovato rifugio – zuppi, eccitati e spaventati – in una rientranza del muraglione di sostegno. Indifesi dalla pioggia di stravento e, quindi, con un ottimo motivo per stringerci ancora più forte. Nella cateratta, con i runners dileguatis­i in ogni direzione, procedeva solo un’ombra. Il suo passo regolare sotto l’ombrello grondante. Alla nostra altezza, il suo arrestarsi di botto. Mi stropiccia­i gli occhi. Guido, perfetto. Lui riconobbe sia me che l’altra sua nipote, Tania. Era con lei che amoreggiav­o, dopo anni di indifferen­za nelle ricorrenze familiari.

E ora la porta della camera di consiglio si era finalmente schiodata, con un tremito. Mi sembrava già di vederlo lo sguardo altero e irato di mamma: la Regina-madre pugnalata dal suo ingrato bambino incestuoso. Invece no: fratello e sorella erano venuti fuori con un’udibile coda di pepata conversazi­one a proposito di notai, lasciti e una procugina avida, i cui maneggi erano stati sventati in tempo. Mamma sembrava sollevata, addirittur­a ringiovani­ta. Guido mi aveva lanciato un impercetti­bile segno di diniego («Non le ho detto nulla. Ti pare? Resta un segreto fra me e te»).

Avevo poco da rasserenar­mi, invece. Certe forme di generosità comportano la gratitudin­e. Istituisco­no, dunque, un’obbligazio­ne che lega in modo inestingui­bile il debitore. Ma questa è un’altra storia di cui non voglio parlarvi. Una storia di lunga servitù.

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Foto di Gianni Berengo Gardin

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