Corriere del Mezzogiorno (Campania)
DISECONOMIE CHE MINANO LA CRESCITA
Un evidente segno della contemporaneità è l’enfasi di attenzione sull’attualità, specialmente nelle vicende economiche, in cui sovente assume le sembianze di una interpretazione trepidante, inseguendo ogni increspatura di trend (per esempio Pil, valore aggiunto). Un’ansia, quasi una smania apprensiva di sventolare risultati, che spesso sembra voler celare piuttosto insicurezza sulle tendenze, incerta fiducia su sfide che possono andar perdute, più raramente una giusta consapevolezza per la rilevanza di questioni che il sistema produttivo deve affrontare in termini di divario Sud-Nord. Paradossalmente, invece, questa condizione consiglierebbe una minore concentrazione sui singoli eventi ed una maggiore riflessione sulla direzione che gli stessi tracciano, se non addirittura una visione congiunta. In tal senso, invero, le risultanze emerse nell’ultimo studio Confindustria–Cerved sulle Piccole e medie imprese meridionali riescono a fare chiarezza, recuperando da un lato i termini della congiunzione, e tratteggiando dall’altro, un quadro di miglioramento, seppur tenue. Ma su quali aspetti prevalentemente? La riscossa delle Pmi sudiste si articolerebbe lungo le direttrici del recupero degli investimenti a ritmi superiori alla media nazionale (indubbiamente agevolata dalle forme di incentivazione governativa), ma anche di un crescente irrobustimento finanziario-patrimoniale e di una redditività aziendale incrementata.
Sin qui, notizie promettenti. Inoltrandosi nella lettura, però, le certezze si comprimono cedendo spazio ai dubbi. La ripresa del tessuto economico meridionale, diffusa e incoraggiata da aspettative (misuratamente) ottimistiche, si rivela nei fatti più accidentata e di indubbia sostenibilità. Se i risultati più lucenti restano comunque in capo alle imprese industriali (per la variazione di fatturato +4,3% verso +2,7% delle non-industriali, seppure entrambe le performance superiori alla media nazionale), vale la pena di soffermarsi sull’approfondimento di indicatori più robusti nella definizione dello stato di salute dell’economia. Il riferimento, tra i tanti, è alla capacità delle Pmi di realizzare margini di redditività operativa (Mol) ed alla percentuale di remunerazione del capitale di rischio dell’imprenditore (Roe). Concretamente allora, raffrontando il Mol delle aziende mediopiccole meridionali con la media del Paese ne deriva un differenziale negativo di 1,6 punti, che si riduce a 1,4 per il comparto industriale. Identica questione per la remunerazione del capitale proprio d’impresa che nel Sud restituisce l’8% – nonostante l’incremento nel confronto con l’anno precedente – versus il 10,2% della media nazionale. A cosa sono dovute tali discrepanze? L’arena competitiva del Mezzogiorno incorpora alcune «diseconomie» – esterne (ed interne) – che, nel loro ruolo di convitati di pietra, finiscono per logorare sensibilmente la crescita. In tal senso, appare obbligatorio adoperarsi a partire dal contenimento dei fardelli esterni (senza tralasciare quelli interni, sorretti dalle abilità strategiche imprenditoriali), per provare a sciogliere alcuni nodi prioritari, come Pa inefficiente, costi di sicurezza alti, elevati costi per servizi reali, difficoltà di accesso al credito, incapacità nell’uso dei fondi strutturali.
Certamente lontano dai flash che vorrebbero fissare in tempo reale la decisione, ma abbastanza tempestiva per consentire di mettere a fuoco interventi concreti per il ripristino delle condizioni di crescita e di competitività delle Pmi meridionali, chissà se l’ipotesi macro-regionale non possa rivelarsi una valente soluzione, o per fare eco al Professore Galasso l’ennesima proposta «indecente».