Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La macro-regione non è «la» soluzione Però è un buon inizio
Caro direttore, giallo è il colore con cui i sondaggisti indicano le «conquiste» del Movimento 5 Stelle. E se la monocromia della mappa elettorale del 4 marzo, giorno del voto per iul rinnovo del Parlamento, interrotta da poche solitarie macchie azzurre, è un dato evidente da Civitella del Tronto (ultimo baluardo della resistenza borbonica) fino all’estremo Sud, non si può non rilevare come questo dato vada ben oltre il successo di un movimento. Il fatto è che l’Italia è spaccata in due.
Non perché il Nord abbia proclamato la secessione, ma perché il Mezzogiorno si è unito in una uniforme protesta, usando l’arma che la contingenza politica gli ha messo a disposizione.
Sul piano istituzionale tutto ciò certifica il fallimento del federalismo, che non ha avuto la forza di realizzarsi in un Paese nato centralista per necessità. Del resto, qualcosa significherà se persino il partito federalista per definizione ha abbandonato l’originaria ragione sociale per darsi un orizzonte nazionale. Altrettanto chimerico tuttavia, a fronte di un regionalismo pasticciato e incoerente, sarebbe inseguire un anacronistico neo-centralismo.
La sola soluzione a portata di mano è dunque un regionalismo differenziato nel quale lo Stato dosi autonomia e intervento a seconda delle esigenze dei diversi territori. In tal senso il Sud dovrebbe pretendere in alcuni ambiti più intervento statale, magari attraverso un’agenzia svincolata dai partiti e dagli equilibri politici contingenti. La competizione globale impone infatti adeguate condizioni di contesto. E fin quando al Sud mancheranno infrastrutture materiali e virtuali, sicurezza, politiche contro la desertificazione delle aree interne, sarà impossibile invertire il trend.
Un ulteriore fallimento attestato dal voto è quello delle classi politiche meridionali, in primis quelle regionali. Nella protesta, paradossalmente, si sono unite la contestazione di un atavico clientelismo e la rabbia per il declino di quello stesso sistema causato dall’esaurirsi delle risorse pubbliche.
Il referendum per la macroregione del Sud, del cui comitato promotore, presieduto da Alessandro Sansoni, mi onoro di far parte assieme a Stefano Caldoro e ad altri «cultori della materia», vuole essere una prima risposta al segnale forte e chiaro delle urne. Può essere dibattuta e anche contestata, come è emerso su queste pagine. Ma al momento è l’unica proposta avanzata dalla politica per aggredire la «nuova questione meridionale». Tutt’intorno è assordante silenzio: come se nulla fosse accaduto.
Dal punto di vista istituzionale è una strada per riprendere in chiave unitaria il tema del superamento del Titolo V, evitando che i referendum di Veneto e Lombardia possano essere interpretati come rivendicazione antimeridionale. Sul piano politico, è l’occasione per archiviare l’esasperato particolarismo delle classi politiche regionali e proporre una sola e coordinata interlocuzione sia con lo Stato centrale sia con l’Europa (dalla quale provengono i pochi denari in circolazione, troppo spesso in questi anni sprecati da quasi tutte le Regioni del Sud).
Nessuno dei promotori ritiene che la «macroregione» sia la soluzione di mali secolari; semmai un punto d’inizio perché di Sud si torni a parlare e lo si faccia all’interno della grande questione nazionale. Perché - banale ma vero - se il Sud non riparte, se non torna a manifestarsi nei suoi mille colori (anche politici), non riparte il Paese. Il Sud non può essere per l’Italia ciò che la Corsica è per la Francia. Glielo impediscono la sua storia, il suo peso economico, la sua importanza strategica. Senatore e presidente
di «Idea Popolo e Libertà»