Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Sulle tracce di Neiwiller
Antonio Neiwiller: schivo, riservato. E poi preveggente, visionario, anticipatore della crisi contemporanea. Ma anche gioviale, tenero, attento all’umano in ogni sua forma.
Questa la complessa fisionomia dell’attore, regista e drammaturgo napoletano, membro di Teatri Uniti con Toni Servillo e Mario Martone, prematuramente scomparso 25 anni fa, nel ritratto che ne fa Vincenza Modica. L’attrice condivise con lui una parte del percorso teatrale e cerca di tenerne viva la memoria, ma soprattutto la poetica. Alle 13.30 sarà all’Accademia di Belle Arti di Napoli, su invito di Antonio Di Ronza della cattedra di Scenografia. L’occasione è la presentazione di un laboratorio che l’attrice terrà in Accademia, a partire dalla sua «Trilogia dell’assenza», composta da tre lavori continuamente ripensati («Rivolta», «Pantomima crudele» e «Il tempo del silenzio»). Riaffiorano con forza i temi di Neiwiller: silenzio, assenza, rimodulazioni sceniche, quelle che Vincenza Modica chiama «trame mosse».
«Quando nell’82 incontrai Antonio», racconta l’attrice, «avevo circa vent’anni e nessuna esperienza teatrale. Lui voleva fondare un gruppo basato sull’elemento vitale di ciascuno di noi. La sua ricerca, ci spiegò, si fondava sulla pratica e sull’attraversamento del silenzio. Io gli raccontai che sono figlia di due sordi e dunque il silenzio era per me un elemento molto familiare. Dopo la sua premessa, mi sentii fortemente agganciata, conoscevo la comunicazione silenziosa, il linguaggio del corpo. Ed entrai nel gruppo».
Come lavorava Neiwiller? «Quando l’ho incontrato, aveva la necessità di accantonare completamente il testo e di andare alle origini del gesto teatrale. Lui poneva l’attore nello spazio scenico con il suo vissuto, che doveva alimentare il teatro, naturalmente non in senso biografico, ma distillando degli umori attraverso le proprie noi attori. Voleva portarci al punto zero». Non ha mai perso la pazienza con i suoi attori in scena? «No, non partiva da un’aspettativa ma da un desiderio. La questione fondamentale per lui era lo spazio vuoto e l’attore dentro questo spazio».
In particolare, il Titanic era «una metafora del disastro, della rimozione di uno sguardo, del non voler vedere la disumanità. Ci voleva tutti calvi, poi fummo solo in due, il riferimento era ai lager. Eliminando ogni forma di linguaggio, anche corporeo, azzerava tutto, andando in maniera radicale alle radici dell’umano, al rapporto tra uomo e morte. Oggi non abbiamo più la forza di andare sull’orlo dell’abisso, compensiamo la paura con l’illusione della comunicazione, perdendo quel mistero a cui Neiwiller teneva».
In «Caro diario» di Nanni Moretti, invece, poco prima di morire, il regista e attore interpreta il sindaco un po’ megalomane di Stromboli. Un ruolo fuori dalle sue corde? «Antonio