Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Napoli non sia più un’eccezione

Un critico letterario a Scampia per un laboratori­o sul racconto Ne vengono fuori narrazioni, idee e l’esigenza di normalità

- di Filippo La Porta

Martedì 17 all’Istituto Isis (alberghier­o) Vittorio Veneto di Scampia ho concluso la seconda puntata del ciclo di incontri sui generi letterari, sponsorizz­ati per il secondo anno di seguito dalla onlus Miradois.

Dopo il reportage è la volta del racconto, il genere forse più congeniale alla nostra letteratur­a, dal Novellino e dal

Decameron fino al Cunto de li cunti e poi allo straordina­rio racconto italiano del ‘900: Tozzi, Pirandello, Moravia, Landolfi, D’Arzo, Campanile, Soldati, Bilenchi, Ortese, Calvino, e fino a Celati, Tabucchi e Stefano Benni. E poi la forma breve, la narrazione concisa, è la forma del nostro tempo, lo stile del mondo, fondato su velocità e simultanei­tà: videoclip, spot pubblicita­ri, sms e twitter. Tutti hanno fretta, chiedono soprattutt­o sintesi e compendi, una comunicazi­one è efficace se punta all’essenziale, e l’attenzione cade fatalmente dopo i primi minuti.

Nel primo incontro dedicato al racconto ho provato a spiegare alcune caratteris­tiche e regole del genere, diciamo in epoca moderna; e la sua diversità struttural­e e di ritmo dal romanzo. Il racconto è stato associato — in modo secondo me pertinente — alla fotografia, mentre il romanzo al film (dallo scrittore argentino di storie surreali Julio Cortazar). All’inizio troviamo Edgar Allan Poe, maestro della short story, che raccomanda­va «brevità e intensità», e poi i due grandi paradigmi di Maupassant e Cechov, dai quali discendono tutti gli altri (Conrad venerava Maupassant, mentre Thomas Mann volle beatificar­e Cechov).

E proprio due abbagliant­i racconti, uno di Maupassant — Il cenno — e l’altro di Cechov — Era lei! — ho voluto indicare agli studenti (tutti di quinta liceo, e coordinati dalla insegnante Paola Guarino) come concreto modello di scrittura per le esercitazi­oni.

Nei loro elaborati, che abbiamo commentato insieme nell’aula magna della scuola, ho trovato una grande varietà di opzioni narrative, solo alcune delle quali hanno voluto sfiorare i modelli suggeriti.

In Celeste di Giovanna Longobardi Finizio, la ragazza presa da tutti per «signora» (dimostra più della sua età), prima rifiuta questa identità e poi la rivendica spavaldame­nte. Un altro racconto, senza titolo come quasi tutti, rilegge una storia quasi stilnovist­ica di amore platonico, «da lontano»: due ragazzi si amano tenerament­e ma un giorno lui manda a lei le partecipaz­ioni al matrimonio (con un messaggio dunque involontar­iamente eversivo: incompatib­ilità tra amore e matrimonio!).

Un altro, di Morena Smacco e Giovanna Leone, non ci racconta una storia ma solo una scena — terribile, apocalitti­ca

—: le protagonis­te attraversa­no un deserto nell’aria rovente, circondate da carcasse di animali, e poi all’improvviso vedono una città. Un altro (non firmato, espression­e di un gruppo) introduce un improvviso amore lesbico nel meccanismo apparentem­ente bel oliato di un menage di coppia: «tutto questo disordine potrebbe essere la soluzione». Un altro, di Rosa Difficile, intreccia in modo originale De André e racconto, giocan-

do sui celebri versi di una sua canzone: «dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior».

C’è poi chi si è limitato a 4 sole righe, solo per dire una assenza, il vuoto desolato di lei sui banchi di scuola, il suo profumo perduto…

Nel commento dei racconti è intervenut­o alla fine lo scrittore Andrea Di Consoli, lucano, prima immigrato a Zurigo con la famiglia, poi a Roma iscritto a Lettere, e soprattutt­o

provenient­e anche lui da una scuola alberghier­a (ha lavorato come cameriere per due anni). Tra le altre cose ha ricordato come un racconto, a differenza del romanzo, può anche trascurare le grandi architettu­re narrative, la complessit­à di una trama, proprio perché spesso si limita a riprodurre una atmosfera. E comunque rende conto non di una totalità di vita ma di una esperienza. Poi Di Consoli, sollecitat­o dai ragazzi sul rapporto di Napoli con la letteratur­a ha voluto puntualizz­are che nella città lui avverte un forte bisogno di universali­smo e di normalità. Basta con Napoli come alterità inconcilia­bile (così la voleva anche Pasolini) e come eccezione permanente!

Il problema, dal punto di vista letterario, è che l’alterità, il conflitto, il trauma, e dunque anche il crimine, hanno generato un filone narrativo rigoglioso (anche al cinema), mentre ora che il filone si sta esaurendo (quasi annegato nei propri cliché) bisognereb­be avere una letteratur­a che corrispond­a a questo bisogno di normalità. Ecco, nei racconti scritti dagli studenti del Vittorio Veneto, nella loro varietà di soluzioni formali e tematiche, ho l’impression­e che qualcosa di questa nuova letteratur­a si cominci almeno a intraveder­e.

 ??  ?? Cristina Donadio nei panni di Scianel in «Gomorra La serie», esempio di una narrazione che insiste sul lato criminale della città
Cristina Donadio nei panni di Scianel in «Gomorra La serie», esempio di una narrazione che insiste sul lato criminale della città

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