Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Napoli non sia più un’eccezione
Un critico letterario a Scampia per un laboratorio sul racconto Ne vengono fuori narrazioni, idee e l’esigenza di normalità
Martedì 17 all’Istituto Isis (alberghiero) Vittorio Veneto di Scampia ho concluso la seconda puntata del ciclo di incontri sui generi letterari, sponsorizzati per il secondo anno di seguito dalla onlus Miradois.
Dopo il reportage è la volta del racconto, il genere forse più congeniale alla nostra letteratura, dal Novellino e dal
Decameron fino al Cunto de li cunti e poi allo straordinario racconto italiano del ‘900: Tozzi, Pirandello, Moravia, Landolfi, D’Arzo, Campanile, Soldati, Bilenchi, Ortese, Calvino, e fino a Celati, Tabucchi e Stefano Benni. E poi la forma breve, la narrazione concisa, è la forma del nostro tempo, lo stile del mondo, fondato su velocità e simultaneità: videoclip, spot pubblicitari, sms e twitter. Tutti hanno fretta, chiedono soprattutto sintesi e compendi, una comunicazione è efficace se punta all’essenziale, e l’attenzione cade fatalmente dopo i primi minuti.
Nel primo incontro dedicato al racconto ho provato a spiegare alcune caratteristiche e regole del genere, diciamo in epoca moderna; e la sua diversità strutturale e di ritmo dal romanzo. Il racconto è stato associato — in modo secondo me pertinente — alla fotografia, mentre il romanzo al film (dallo scrittore argentino di storie surreali Julio Cortazar). All’inizio troviamo Edgar Allan Poe, maestro della short story, che raccomandava «brevità e intensità», e poi i due grandi paradigmi di Maupassant e Cechov, dai quali discendono tutti gli altri (Conrad venerava Maupassant, mentre Thomas Mann volle beatificare Cechov).
E proprio due abbaglianti racconti, uno di Maupassant — Il cenno — e l’altro di Cechov — Era lei! — ho voluto indicare agli studenti (tutti di quinta liceo, e coordinati dalla insegnante Paola Guarino) come concreto modello di scrittura per le esercitazioni.
Nei loro elaborati, che abbiamo commentato insieme nell’aula magna della scuola, ho trovato una grande varietà di opzioni narrative, solo alcune delle quali hanno voluto sfiorare i modelli suggeriti.
In Celeste di Giovanna Longobardi Finizio, la ragazza presa da tutti per «signora» (dimostra più della sua età), prima rifiuta questa identità e poi la rivendica spavaldamente. Un altro racconto, senza titolo come quasi tutti, rilegge una storia quasi stilnovistica di amore platonico, «da lontano»: due ragazzi si amano teneramente ma un giorno lui manda a lei le partecipazioni al matrimonio (con un messaggio dunque involontariamente eversivo: incompatibilità tra amore e matrimonio!).
Un altro, di Morena Smacco e Giovanna Leone, non ci racconta una storia ma solo una scena — terribile, apocalittica
—: le protagoniste attraversano un deserto nell’aria rovente, circondate da carcasse di animali, e poi all’improvviso vedono una città. Un altro (non firmato, espressione di un gruppo) introduce un improvviso amore lesbico nel meccanismo apparentemente bel oliato di un menage di coppia: «tutto questo disordine potrebbe essere la soluzione». Un altro, di Rosa Difficile, intreccia in modo originale De André e racconto, giocan-
do sui celebri versi di una sua canzone: «dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior».
C’è poi chi si è limitato a 4 sole righe, solo per dire una assenza, il vuoto desolato di lei sui banchi di scuola, il suo profumo perduto…
Nel commento dei racconti è intervenuto alla fine lo scrittore Andrea Di Consoli, lucano, prima immigrato a Zurigo con la famiglia, poi a Roma iscritto a Lettere, e soprattutto
proveniente anche lui da una scuola alberghiera (ha lavorato come cameriere per due anni). Tra le altre cose ha ricordato come un racconto, a differenza del romanzo, può anche trascurare le grandi architetture narrative, la complessità di una trama, proprio perché spesso si limita a riprodurre una atmosfera. E comunque rende conto non di una totalità di vita ma di una esperienza. Poi Di Consoli, sollecitato dai ragazzi sul rapporto di Napoli con la letteratura ha voluto puntualizzare che nella città lui avverte un forte bisogno di universalismo e di normalità. Basta con Napoli come alterità inconciliabile (così la voleva anche Pasolini) e come eccezione permanente!
Il problema, dal punto di vista letterario, è che l’alterità, il conflitto, il trauma, e dunque anche il crimine, hanno generato un filone narrativo rigoglioso (anche al cinema), mentre ora che il filone si sta esaurendo (quasi annegato nei propri cliché) bisognerebbe avere una letteratura che corrisponda a questo bisogno di normalità. Ecco, nei racconti scritti dagli studenti del Vittorio Veneto, nella loro varietà di soluzioni formali e tematiche, ho l’impressione che qualcosa di questa nuova letteratura si cominci almeno a intravedere.