Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL VENTO CHE ARRIVA DAL SUD
Èproprio vero che il destino, a volte, capovolge le traiettorie e disegna strani incroci. Pensate al voto del 4 marzo: sembrava che il Mezzogiorno fosse scomparso dalla geografia politica. Si diceva: il trionfo dei Cinque Stelle è un gigantesco «vaffa» che ha trovato nel reddito di cittadinanza il suo propulsore. Insomma, nessuna strategia e nessun progetto, soltanto rabbia e impoverimento, roba poco spendibile sul fronte istituzionale. Ebbene, che questa lettura dei risultati elettorali fosse quantomeno superficiale, era stato più volte sottolineato sulle colonne del nostro giornale. Le percentuali da capogiro ottenute dal Movimento grillino, sebbene intrise di rancore verso una classe dirigente totalmente fallimentare, dimostravano comunque la vitalità di un Sud deciso ad abbandonare il cantuccio della rassegnazione (nel quale solitamente germogliano clientelismo e corruzione) ma ancora incapace di scovare il modo giusto per trasformare il «sentimento» in «ragione» e plasmare una materia informe nel calco d’una proposta di governo. La possibile alleanza tra Di Maio e Salvini, al centro del dibattito per settimane, avrebbe posto una pietra tombale sulla possibilità di realizzare questa formula alchemica: gli interessi di un Nord più omogeneo politicamente, forte di una ripresa che soprattutto in quella zona del Paese ha restituito un po’ di fiato alle aziende, avrebbero senza dubbio spento la scintilla di rivolta che il Meridione aveva acceso nelle urne elettorali.
Invece, con un mescolamento delle carte che è tipico del sistema proporzionale, il gioco è tornato a sorpresa nelle mani del Mezzogiorno, almeno a guardare l’elenco dei protagonisti di questo secondo giro di consultazioni esplorative.
Partiamo dal presidente della Camera, Roberto Fico, incaricato dal Quirinale di sondare la possibilità di un governo M5S-Pd: è un napoletano doc, grillino della prima ora e punto di riferimento per chi, tra costoro, viene da un passato di sinistra o di battaglie per i diritti civili, abile a coniugare l’aspetto istituzionale (di rigore nel nuovo dress code del Movimento) con quello barricadero. Il fatto che sia lui e non Di Maio a trattare l’eventuale alleanza potrebbe renderla più potabile al caravanserraglio democratico, finora paralizzato dai contrasti interni.
Ma oltre Fico bisogna tener conto dei due leader meridionali del Pd — ossia Emiliano e De Luca — che, seppur con accenti molto diversi, appaiono favorevoli a un’intesa. Il governatore della Puglia, in verità, da tempo non fa mistero di voler giungere a un accordo nazionale con i Cinque Stelle e, quindi, ora si ritrova catapultato in prima fila nel dialogo che si sta sviluppando a Roma.
Il presidente della Campania, al contrario, rappresenta una new entry nella classifica dei pontieri: non è mai stato tenero e conciliante (largheggiando con gli eufemismi) nei confronti dei grillini ma, dopo l’ingresso in campo di Fico, ha sposato l’idea di sostenere un governo pentastellato «a patto che faccia cose utili per il Paese». Certo, ci muoviamo ancora nell’insidioso terreno dei tatticismi: bisogna valutare ogni dichiarazione pubblica come una mossa di scacchi, pesandola con estrema accortezza sulla bilancia della verità. Ma è altrettanto vero che lo stagno sembra incresparsi di piccole onde, a cominciare da ciò che si muove in casa Pd dove, a dispetto dell’Aventino imposto da Renzi, qualcuno comincia ad accorgersi che abbiamo votato con un sistema elettorale orrendo (battezzato, ironia del caso, Rosatellum perché Ettore Rosato, uno dei leader democratici, l’ha condotto in porto) ma di natura sostanzialmente proporzionale. Altro che «gli elettori ci hanno mandato all’opposizione»: queste, e altre simili, sono chiacchiere a vanvera, fake-news figlie di un maggioritario ormai defunto.
Il voto del 4 marzo ha senza dubbio scagliato il Pd nelle retrovie, assegnandogli un ruolo secondario nella sceneggiatura post-elettorale, ma non l’ha cancellato da un gioco che oggi si fonda su altre regole. C’è bisogno di ricordare che, con il proporzionale della prima Repubblica, partiti dai consensi ben più risicati hanno governato l’Italia per anni, sia da comprimari che da protagonisti? Qualcuno ha già dimenticato il ruolo istituzionale ricoperto da uomini come Craxi, Spadolini e Malagodi, che messi insieme non raggiungevano l’attuale percentuale del Pd? È chiaro che lo spiraglio di successo nel tentativo di Roberto Fico è estremamente sottile, troppe variabili (umane e politiche) possono sigillarlo da un momento all’altro.
Ecco perché tocca al Mezzogiorno imprimere la spinta decisiva per offrire all’intero Paese l’opportunità di avere, dopo quasi due mesi di attesa, un governo (qualunque sia la sua architettura) radicato su accordi chiari e incontrovertibili. Il cieco rancore e lo stupido orgoglio non sono merci che producono guadagno, tantomeno in politica. Meglio addentrarsi lungo un nuovo sentiero e provare a scorgere l’orizzonte seguendo il soffio dell’ostro. Il vento che arriva dal Sud.