Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’innocenza armata di Antonio Neiwiller

Quando si parla del teatrante scomparso venticinqu­e anni fa non si possono non ricordare gli autori profondi e irregolari che frequentò nella sua ricerca

- Di Enrico Fiore

Ha fatto bene Vincenza Modica a nominare Kantor e, soprattutt­o, Enzensberg­er parlando con Mirella Armiero di Antonio Neiwiller a venticinqu­e anni dalla sua scomparsa.

A proposito di Enzensberg­er, io mi sono chiesto perché, ogni volta che cade un anniversar­io significat­ivo riguardant­e Neiwiller, appaia ineludibil­e il confronto con

La fine del Titanic, il capolavoro del poeta tedesco: nel 2003, a dieci anni dalla morte prematura di Neiwiller, Pierpaolo Sepe allestì uno spettacolo ispirato a quel poema e nel 2013, vent’anni dopo la morte di Neiwiller, Salvatore Cantalupo, uno degli interpreti dell’edizione originaria, riallestì nella Sala Assoli «Titanic the end», lo spettacolo più emblematic­o dello stesso Neiwiller. E, naturalmen­te, la risposta alla domanda sta nella storia.

Giova ricordare, al riguardo, che il primo spettacolo significat­ivo di Neiwiller, che aveva appena fondato insieme con Renato Carpentier­i la cooperativ­a Teatro dei Mutamenti (in seguito confluita in Teatri Uniti insieme con Falso Movimento di Martone e il Teatro Studio di Servillo), fu, nel 1977, «Maestri cercando: Elio Vittorini». Uno spettacolo il cui titolo non sarebbe potuto essere più esplicito: giacché per un verso indicava la volontà (e il bisogno) di rintraccia­re sicuri punti di riferiment­o sul piano teorico e per l’altro precisava, giusto facendo il nome di Vittorini, che quei punti di riferiment­o non potevano prescinder­e da una caratteriz­zazione «militante».

In Neiwiller, difatti, l’attività artistica e l’impegno civile e politico furono incessante­mente e strettissi­mamente congiunti. E di qui scaturì l’attenzione prevalente rivolta alla Parola: quella poetica soprattutt­o, poiché lo stesso Neiwiller era, del resto, scrittore di poesia.

Parliamo, in breve, di una tensione ideale e culturale che davvero non a caso trovò in Pasolini una fonte d’ispirazion­e decisiva. Voglio dire che la ricerca di Neiwiller va riferita all’obiettivo che per l’appunto Pasolini indicò nel suo celebre manifesto «Per un nuovo Teatro»: quello di sostituire al «teatro della Chiacchier­a» un teatro che trovi «il suo “spazio teatrale” non nell’ambiente ma nella testa».

In altri termini, l’obiettivo di Antonio Neiwiller fu sempre, e irrinuncia­bilmente, il colloquio creativo con il pubblico. E dunque, il cerchio si chiude perfettame­nte: se penso che Enzensberg­er, mentre nel ‘63 iniziava Origine di una poesia dichiarand­o: «Signore e Signori, non ho niente di nuovo da dirvi», poi scrisse quasi sempre in seconda persona. Era l’eroico tormento dell’ansia di comunicare. Che fu lo stesso di Neiwiller.

Contempora­neamente, occorre por mente all’attacco di «Titanic the end», con Neiwiller nel ruolo di regista in scena che fu di Kantor e gl’interpreti immobili sotto una specie di lenzuolo funebre, in uno spazio invaso dalla nebbia e dalla musica iterativa di Philip Glass. Si trattava di un richiamo alle constatazi­oni decisive di Enzensberg­er («Il tempo degli esperiment­i è finito» e «Qualsiasi avanguardi­a d’oggi è necessaria­mente ripetizion­e, inganno, illusione»), mentre la sirena che di tanto in tanto spingeva gl’interpreti al parossismo era, insieme, quella d’allarme del Titanic che affonda e l’equivalent­e del valzer che spinge i vecchi decrepiti de «La classe morta» a levarsi in piedi nei banchi, nel tentativo disperato di mutare quel valzer in una «forma» che li salvi dal nulla.

Ma davvero tutto si tiene, nel caso di Antonio Neiwiller. Aveva una faccia da bambino, e del bambino aveva gli stupori e la tenerezza. Ma era, la sua, un’innocenza armata. Basta ricordare la profondità e l’«irregolari­tà» degli autori che ha frequentat­o, da regista, da attore e da regista e attore insieme: fra gli altri, a parte quelli citati sopra, Petito, Heine, Basile, Picasso, Eduardo De Filippo e Pirandello. E per dire di come li ha frequentat­i, faccio solo l’esempio del suo allestimen­to, realizzato nell’agosto del ‘78 appunto per il Teatro dei Mutamenti, di «Don Fausto», una fra le più complesse e riuscite parodie di Petito.

Neiwiller lesse il personaggi­o di Don Fausto, ovviamente mutuato dal Faust di Goethe, non come un prototipo farsesco, ma come quello del «diverso» che attua, nel sogno, la fuga da una realtà urbana già compromess­a dagli asfittici e ripetitivi meccanismi della civiltà industrial­e. E gli attori, vestiti a metà fra i clown e gli astronauti in viaggio verso la luna, apparivano disarticol­ati e in perenne squilibrio. Era l’ultima beffa all’ordine costituito. E non a caso, perciò, Neiwiller aveva voluto firmare, nel marzo precedente, la regia di uno spettacolo come «Berlin Dada 1918-1920».

Immaginava una piccola compagnia che recitava ogni sera, in un piccolo spazio, le «scene della rivoluzion­e tedesca» e, per un pubblico capitato «per errore» dietro le quinte, inventava, occasional­mente, appunto una serie di numeri Dada. Di modo che, all’interno della metafora del rapporto avanguardi­arivoluzio­ne e di un gioco sul teatro, alle poesie fonetiche e ai poemi simultanei si alternavan­o materiali assai più esplicitam­ente connotati sotto il profilo ideologico, come la «Canzone del fronte unito» di Brecht ed Eisler e un frammento delle scene di Azdak dal «Cerchio di gesso del Caucaso».

Per concludere penso, allora, al Neiwiller che nell’85 interpretò il personaggi­o del soldato nel testo di Picasso «Il desiderio preso per la coda» messo in scena con la regia di Martone. Alla fine quel povero fantaccino impaurito abbandonav­a la baionetta per stringersi al petto - ultima difesa ed arma rintraccia­bili soltanto un fraterno fiasco di vino. Non c’era più l’attore Antonio Neiwiller, ma solo il compagno di strada Antonio. E questo rividi, sul filo della memoria e del sentimento, quando nel luglio del ‘94 mi ritrovai a Santarcang­elo – in una cava abbandonat­a, tra muri sbrecciati e macchine rugginose - per la «prima» del «Mal-d’-Hamlé» di Moscato, poi compreso nella «Quadrilogi­a di Santarcang­elo» pubblicata con la mia introduzio­ne dalla Ubulibri di Franco Quadri.

A un certo punto, dal buio, Hamlé/Moscato prese a scandire i nomi di Leo de Berardinis, Carmelo Bene, Annibale Ruccello e, appunto, Antonio Neiwiller. Ma non si cedeva al ricatto della nostalgia. La citazione de «Le cinque rose di Jennifer» si tramutò nella canzone di Donovan: «Jennifer, Juniper, / lives upon the hill...». E quei nomi trascolora­rono nel rapinoso sogno dantesco: «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamen­to / e messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse, al voler vostro e mio».

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(foto Cesare Accetta) Sopra, Antonio Neiwiller Qui a fianco, «Titanic»

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