Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ma a Napoli i Democratici non sanno fare opposizione
Dopo aver consacrato per qualche anno la sua intelligenza alla causa di Matteo Renzi, sembra che Claudio Velardi abbia riconquistato la sua antica lucidità politica, forgiata nel passato comunista e affinata alla scuola di D’Alema, di cui è stato a lungo fidato consigliere. L’ex Lothar (così furono definiti i membri, quasi tutti calvi, dello staff del «baffo») ha ora sposato, con la veemenza che gli è solita, la tesi dell’alleanza con i Cinquestelle. Attirandosi ovviamente sui social un tentativo di linciaggio da parte di quel gruppo, evidentemente più renziano di lui, che si è intestato l’hashtag #senzadime per intendere che ove mai il Pd entrasse in un governo con Di Maio loro straccerebbero la tessera.
Ora noi non vogliamo discutere qui le ragioni per cui Velardi pensa che sia giusto fare un accordo con un Movimento che fino a un mese fa considerava, insieme ad altri, un pericolo per la democrazia. Ci sono ovviamente dei pro e dei contro, e il Pd sarà chiamato nella direzione a una scelta già abbastanza complicata e difficile per aggiungere altra chiacchiera a tutta quella in circolazione. Mi interessa di più segnalare due osservazioni che Velardi ha fatto nell’intervista al Corriere del Mezzogiorno con cui ha lanciato la sua nuova crociata, che riguardano il Pd e che mi
sembrano entrambe molto vere, e una anche molto acuta.
La prima osservazione è che scegliere l’opposizione per un partito è un non senso. Nessun partito al mondo, neanche nei tempi delle ideologie imperanti, ha mai «scelto» l’opposizione, nemmeno quando andava male alle elezioni. Il Pci, per esempio, che pure all’opposizione c’è stato per decenni e vi ha prosperato fino a diventare così grosso da entrare nell’area di governo con l’accordo tra Berlinguer e Moro, il Pci dicevo non si compiaceva di questa collocazione, come se fosse voluta o naturale, ma anzi protestava contro la conventio ad excludendum che lo teneva fuori dal governo. Attribuiva cioè il suo stato di opposizione a una discriminazione, e se ne doleva perché gli impediva di difendere meglio gli interessi popolari, ciò che riteneva essere la sua missione storica. Insomma: all’opposizione, eventualmente, ti ci mettono gli altri. Un partito
politico nasce e vive per governare, per produrre risultati, per rendersi utile al Paese e ai suoi elettori. E rifiuta il governo solo se parteciparvi lo costringesse a danneggiare gli interessi del Paese e dei suoi elettori.
La seconda osservazione, che come ho detto ho trovato acuta, è la seguente: anche volendo, il Pd non è più capace di stare all’opposizione. L’idea che si possa «rivitalizzare» fuori dal governo è addirittura dileggiata da Velardi: «Li voglio proprio vedere gli elettori del Pd dei Parioli e di Chiaia Posillipo che si mettono a fare i girotondi! Il Pd è un partito moderato, di centro più che di sinistra, nel bene e nel male è innervato nel cosiddetto sistema. È pensabile che si metta a fare i cortei in difesa - poniamo - del jobs act o della buona scuola?».
Proprio il caso di Napoli meriterebbe di essere analizzato per provare in maniera inconfutabile questa verità. Il Pd partenopeo
è all’opposizione da sette anni ormai, si batte contro un sindaco così facile alla demagogia da averlo considerato all’inizio un facile bersaglio, di cui i napoletani si sarebbero presto stancati. Un sindaco, tra l’altro, la cui idea di politica non si discosta molto da quella dei Cinquestelle, cui i #senzadime vorrebbero opporsi. Eppure il Pd napoletano non si è mica «rivitalizzato». Anzi. Dopo cinque anni di opposizione, alle comunali ha preso l’11,63%, e dopo sette alle politiche il 14,81%.
Ciò che però Velardi non dice è che questa incapacità di fare l’opposizione non deriva solo dal mutamento antropologico avvenuto negli anni nell’elettorato del Pd, o dal vuoto di cultura politica e programmatica che ha sostituito l’ideologia di un tempo. Dipende anche, a Napoli di sicuro, dal fatto che il Pd spesso non è più un partito, cioè un insieme di persone legate da un interesse comune, ma un’accozzaglia o un amalgama (per usare due espressioni già ricorse nel dibattito politico) di bande locali animate da interessi diversi e non convergenti, di gruppi opportunistici che inseguono solo il potere, senza alcuna bussola politica, e di classi dirigenti conseguentemente di basso livello.
È evidente che un partito così ridotto non possa fare proficuamente opposizione. Però, giusto per non essere troppo d’accordo con Velardi (negli ultimi anni non mi è mai successo) aggiungo che questa deriva del Pd napoletano si è accelerata durante il lungo regno di Renzi, forse perché tollerata in cambio di voti. Ritrovarsi oggi un partito che non ha più due possibili modi di stare in vita, al governo e all’opposizione, ma solo uno, al governo, è il frutto estremo dello sfinimento di uno strumento politico che è stato sacrificato all’ambizione di un leader. Proprio negli anni in cui Velardi applaudiva in prima fila il nuovo corso del Pd.