Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Palazzo Positano torna a splendere con gli affreschi «teatrali» di Del Po
Tesori da riscoprire Una visita guidata da Italia Nostra nell’edificio in via di restauro
Su Napoli si è detto tanto e i pareri son più che mai discordanti. Ma una cosa è certa: questa nostra città rappresenta una miniera ancora in parte inesplorata. Tant’è vero che alla mia età io pensavo di conoscerla da capo a fondo, e invece, quando mai!, scopro che ci son tesori di cui non sospettavo l’esistenza. Come gli affreschi di Giacomo del Po da cui è impreziosito palazzo Positano.
Affreschi che credo fossero ignoti non solo a me, ma a quasi tutti i napoletani. Perché a lungo il palazzo è stato abbandonato a un micidiale degrado. Finché il miracolo è avvenuto: il nuovo (benemerito) proprietario, Pierluigi Ciapparelli, vi ha avviato degli oculati lavori di restauro e l’ha riportato alla vita. Per cui nel corso della visita (organizzata da Guido Donatone per Italia Nostra) all’emozione causata da dipinti così belli si è aggiunto l’orgoglio di esser tra i primi a poterli ammirare. Belli perché? Beh, non sono una storica dell’arte, quindi mi limito a dire che quelli del salone ovale rinfrancano occhi e cuore con scenari onirici nel cui ambito corpi beatamente affrancati dalla legge di gravità e ammantati in drappi gonfi di vento si librano nella vastità del cielo, offrendosi alla luce che, investendoli, li vitalizza e sublima.
E pure negli altri due ambienti affrescati, la cosiddetta «alcova» e il salotto con vista su palazzo Maddaloni, le decorazioni offrono uno spettacolo talmente accattivante che è impossibile non starsene a contemplarle a testa in su. Non a caso ho usato il termine «spettacolo», perché, se è vero che spesso pittura e teatralità son andate a braccetto, a Palazzo Positano la dimensione teatrale è così incisivamente percepibile che chi vi entra si sente non visitatore, ma «spettatore». A parte che Giacomo del Po nel mondo del teatro si trovava in famiglia, perché il fratellastro Andrea era impresario del famoso San Bartolomeo (per le cui messe in scena egli elaborò varie scenografie).
A riferircelo è il padrone di casa il quale narra anche che, se a inizio ‘700 il duca Positano proprio qui volle la sua dimora (singolare per come si incunea tra via Pasquale Scura e via Forno Vecchio), fu perché, a partire da centocinquanta anni prima, questa zona, vicina alla Porta Reale (oggi scomparsa) e al Largo del Mercatello, risultava assai appetibile all’aristocrazia (fra gli altri vi sorsero il già citato palazzo Maddaloni e palazzo Doria d’Angri). Ma torno sul tema della teatralità, in quanto (e non c’è da stupirsene, dato che per secoli le chiese cattoliche son state magisteri di scenografia) nel suo segno si caratterizza anche San Nicola alla Carità (sede della prima sosta prevista dal nostro programma): infatti, a mostrare la genialità della regia che ne ha ideato la creazione, basta il modo in cui il rosone irradiato dalla luce esterna si incastona sulla tela del De Matteis che sovrasta l’altar maggiore. Ma la visita è stata interessante soprattutto perché Renato Ruotolo, che ci ha fatto da cicerone, ha delineato un vivacissimo ritratto del Solimena, di cui nella chiesa son presenti alcune tele. In pratica Solimena, dopo essersi svincolato dall’influenza del Lanfranco e di Mattia Preti, riuscì a imbroccare uno stile personale così rispondente ai gusti del tempo che i suoi quadri vennero magnificati e acquistati in tutta Europa, la sua bottega divenne un’azienda in cui agiva una folla di lavoranti e, in conseguenza, i soldi arrivarono a palate. E allora volle un palazzo a San Potito sul cui portone il suo nome spiccava a caratteri cubitali e, ritrovandosi conteso e coccolato da tutta l’aristocrazia, e ospite ambito pure ai convegni letterari, perché, beato lui, era bravo anche a verseggiare, a un certo punto cosa si inventò? Di discendere dai baroni Solimene di Altavilla Silentina.
Insomma una mattinata ricca di emozioni e notizie intriganti e di cui dobbiamo dir grazie a Italia Nostra. E tuttavia, tornandomene, ho avvertito un sussulto di malinconia. Cioè, mi son chiesta: ma com’è possibile che epoche in cui, indiscusse, trionfavano ingiustizia e ipocrisia, perché i potenti si genuflettevano in chiesa, ma poi, sicuri del loro buon diritto, sfruttavano a sangue i sottoposti, abbiano albergato una così sconfinata capacità di creare e apprezzare la bellezza, mentre in quella che noi viviamo la quale, malgrado i suoi orrori, è comunque molto più aperta al rispetto del prossimo, e quindi, ammettiamolo, più progredita, la bellezza sta uscendo di scena? Allora accadeva spesso che gli apprendisti, entrati ragazzi nella bottega di un maestro, in virtù di un processo che non è eccessivo definire magico, in breve si mettessero in grado non solo di raffigurare il reale (e il sogno che del reale fa parte), ma di renderne mistero e portento. E che i committenti, laici ed ecclesiastici, a gara si contendessero quei capolavori.
Oggi sgomentarsi è d’obbligo: perché i vip esigono dimore fastose e «originali», ma in cui quasi mai c’è traccia di bellezza, gli ordini monastici costruiscono strutture a dir poco raccapriccianti, e le chiese «moderne» hanno sagome non solo sgraziate ma del tutto inadeguate a esprimere spiritualità. E, allora, attenzione! La situazione non è da sottovalutare. Perché la bellezza è una cosa seria, offenderla è un sacrilegio, e un mondo in cui essa sia scomparsa (quello a cui temo ci stiamo avviando) non sarà più a misura d’uomo.