Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Presi il colera, torno dopo 45 anni»
La testimonianza: «Per due settimane reclusa al Cotugno»
Anno 1973. Katrin Trammer ha sedici anni. È bionda e molto graziosa, viene da Tubinga, ha l’aria innocente e sfrontata al tempo stesso, almeno così appare dalle foto dell’epoca. I giornali le pubblicano con il titolo: «La tedesca ricoverata al Cotugno». È l’unica straniera ammalata di colera, durante l’epidemia che colpì Napoli. La notizia rimbalza in Germania su quotidiani e periodici e il prestigioso «Stern» titola ad effetto un lungo servizio: «Tod in Neapel», «Morte a Napoli».
In effetti Katrin di morire non ebbe mai paura («Ero giovane e fiduciosa»). Lo racconta oggi, per la prima volta, tornata a Napoli in occasione di una vacanza che ha scelto di trascorrere a Ischia, con il marito. Ha voluto rivedere la città che all’epoca percepì solo dalle finestre dell’ospedale, dove era chiusa senza poter avere alcun contatto con i genitori. Ma come contrasse la malattia? La ragazzina stava girando in automobile con padre architetto, madre bibliotecaria e una sorella più giovane di tre anni. Un viaggio in Italia, una vacanza in varie tappe. A fine agosto, la famiglia approda in Puglia, sul Gargano, e a Manfredonia la ragazza mangia le cozze, che non le piacciono nemmeno tanto, preferisce gli spaghetti. L’itinerario verso Napoli, meta successiva, è un calvario: mal di pancia lancinante con tutte le sue conseguenze. «Arrivai in un primo ospedale», racconta Katrin, oggi una bella e sportiva signora sessantunenne, «e da lì mi mandarono al Cotugno. Ricordo la difficoltà di mio padre a stare dietro all’ambulanza con l’auto. Gli dissero di mettere un fazzoletto fuori dal finestrino e di correre». I primi due giorni furono quelli più duri, di dissenteria e malessere, poi Katrin passò al reparto dei meno gravi. «Era difficile far trascorrere i giorni, senza sapere cosa sarebbe successo. Ricordo che studiavo per l’esame di patente e cercavo di imparare l’italiano, mentre i miei genitori angosciati venivano ogni giorno davanti all’ospedale per controllare che il mio nome non fosse tra quelli dei deceduti. Da allora loro hanno odiato Napoli, io invece no».
Un’esperienza che comunque le ha cambiato la vita. «Sono trascorsi 45 anni, eppure il mio ricordo è più vivo che mai. Durante il mio soggiorno a Napoli ho visto e imparato molto. Poiché la malattia non mi costringeva a letto, ho avuto modo di muovermi liberamente in ospedale, ma anche di osservare dalla finestra la vita che scorreva fuori. È stata questa esperienza ad insegnarmi ad apprezzare le piccole cose della vita».
Con chi si trovò a condividere quei giorni in corsia? «Per me era un microcosmo totalmente nuovo: c’era una comunista convinta, una bambina di 13 anni che non sapeva né leggere né scrivere, una vecchia senza denti che conservava nel cassetto del suo comodino la carne del pranzo per portarla alla famiglia, una donna che vedeva in me – nella straniera – il più grande pericolo di contagio e si proteggeva la bocca con un pezzetto di carta igienica quando era costretta a parlarmi. Facevo parte di un gruppo tenuto insieme da un destino incontrollabile e ho imparato ad accettare gli esseri umani così come sono. E poi c’era anche Pasquale. Un bambino di 18 mesi, forse di due anni. È a lui che ho donato tutta la mia attenzione. Era solo – ancora più solo di me – e piangeva, aveva paura e nostalgia. Così ho cominciato a raccontargli storie in tedesco, a cantare canzoni con un filo di voce, a cullarlo tra le mie braccia. Ci siamo aiutati a vicenda, Pasquale ed io». Assisté alla visita del presidente Leone? «No, ma mi invitarono alla messa con il cardinale. Io non volli, perché protestante». In che condizioni si trovarono i pazienti? A una ragazza abituata agli standard tedeschi come apparve l’ospedale napoletano? «L’impressione fu abbastanza catastrofica. Ricordo che tutte le donne fumavano e presi a farlo anche io. Una volta, come le altre, buttai la cicca a terra e un’altra donna la raccolse e continuò a fumarla. E poi tutti avevano reazioni molto teatrali, per me era assai singolare». Eppure tutto questo non ha impedito a Katrin di tornare a Napoli. Oggi andrà in cerca dei murales più belli, come quello dell’ex Opg, di cui ha letto su un giornale tedesco. «Credo di aver sviluppato qui una sorta di resilienza. E nonostante tutto, il mio grande amore per l’Italia è cominciato proprio a Napoli».
” Il ricordo dell’ospedale Era in condizioni catastrofiche Ma non pensai di morire, ero giovane e fiduciosa