Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I miei ricordi (da studentessa) della città e quell’appartamento sopra il Frame Cafè
La città, com’era 25 anni fa, nel racconto della giornalista che domani parteciperà all’evento nel Monastero delle 33
Domani torno a Napoli dopo molto tempo e, come prima cosa, andrò in via Paladino a cercare la casa dove ho abitato, da studentessa, 25 anni fa. Sotto, c’era il Frame Cafè, che era di Tommy, un caro amico di Pino Daniele.
I 99 Posse con Luca O’ Zulù e un sacco di altri dell’underground di quei primi anni ’90 stavano sempre in mezzo al vicolo a cantare Curre Curre Guaglio’, a pensare eventi e organizzare manifestazioni. Facevano chiasso e io faticavo a concentrarmi sui libri, ma saperli lì mi faceva sentire parte di una città grande e viva. Di fronte, vedevo la Federico II, facoltà di Lettere. Mi ci ero iscritta dopo aver vinto e rifiutato una borsa di studio per Commercio Internazionale e Mercati Valutari, in quella che è ora l’Università Parthenope. Avevo nascosto a mio padre di aver vinto quel concorso e che mi avrebbero pagata per prendere una laurea che prometteva un posto sicuro, perché volevo, invece, diventare giornalista, la più velleitaria delle carriere, agli occhi di mio papà.
Era settembre ed ebbi l’occasione di mettermi alla prova in un quotidiano di Sorrento, dove sono nata. Scrivere per Il Golfo mi piacque, ma molto. Auguro a ogni giovane la benedizione di scoprire già a 18 anni la propria vocazione. Erano i tempi di Tangentopoli e, di colpo, avevo l’occasione di mettere la testa nel mondo dei grandi, provare a capirlo, raccontarlo, immaginare come si poteva cambiare. Rinunciai alla borsa di stuprimi dio e riuscii a iscrivermi a Lettere Moderne a novembre, in tempo per l’inizio dell’anno accademico. Confessai tutto a mio padre, giurandogli, con l’incoscienza della gioventù, che da quell’istante mi sarei mantenuta da sola, col giornalismo. La mattina, gli portavano il giornale coi miei articoli e si commuoveva. Aveva la quinta elementare e diceva a tutti che avevo preso da lui. Da uomo d’un altro secolo, dapprincipio, riteneva sconveniente che, essendo femmina, prendessi il treno per andare all’università da Sorrento a Napoli. Però, dopo un anno di pendolarismo, fu lui a dirmi che non capiva perché non mi trovassi una stanza lì, invece di perdere tempo sulla Vesuviana. Fu così che finii sopra al Frame, a un passo da Piazzetta Nilo. All’angolo con San Biagio dei Librai, c’era un alimentari dove, per noi studenti, tutto costava la metà, perché ci consideravano la ricchezza del quartiere, il futuro della città.
Napoli erano le ore spese a studiare nel chiostro di San Marcellino, il mistero del vicino Cristo Velato dove andare a raccogliere i pensieri, il mio primo tram per portare i pezzi al Mattino, il sole a Castel Dell’Ovo mentre scrivevo un pezzo. La mia Napoli erano scampoli fra un articolo da consegnare e un esame da dare, era la promessa di una città che sarebbe stata mia, ma un giorno, quando avrei fatto tutto quello che avevo ancora da fare.
Poi, ho scelto di andare via, ma non si ha molta scelta quando altrove ci sono prospettive inesistenti nel luogo in cui ti trovi. Per anni, ricordando il negozio di alimentari di Piazzetta Nilo e tutti gli sconti che mi aveva accordato, ho pensato, pur nel piccolissimo delle mie possibilità, di aver mancato a una promessa fatta a un’intera città.
Per questo è una gioia, adesso, tornare a Napoli potendo firmare sul Corriere del Mezzogiorno. Lo devo al direttore Enzo d’Errico, assieme al regalo di entrare, domani alle 18, nel Monastero delle Trentatré. Con lui, con suor Rosa Lupoli, Francesco Nicodemo, Maria Pia De Vito, con Mario Martone e Maurizio de Giovanni i cui film e i cui libri mi hanno tenuto in contatto con l’anima di Napoli, parleremo di «Comunità e rete: la religione del web». C’è in questo titolo, per giunta discusso in un monastero di clausura, tutto il tempo trascorso dalla mia primavera napoletana, quando Internet non esisteva e, per scambiare due parole o sapere le notizie, dovevo scendere in piazza San Domenico Maggiore. Ordinavo un caffè al bar, ma era una scusa per poter sfogliare i giornali e commentarli con la varia umanità di passaggio. Smartphone e social non esistevano e tutti avevano ancora voglia di scoprirsi o diversi o simili nell’incontro con gli altri. E io mi sentivo fiera di appartenere a quel quartiere più di quanto negli anni a venire mi sia mai compiaciuta di appartenere a qualche community web.