Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Rincorsa e umiliata Così diventa difficile prestare assistenza»

- Ra. Nes.

NAPOLI Dopo aver chiesto alla collega di allertare la polizia, Aurora (infermiera del Cardarelli), è dovuta letteralme­nte scappare. «Quando quell’uomo ha sentito che avevo chiesto l’intervento del 113 – racconta - è andato in escandesce­nza».

Ha avuto paura che aggredisse anche lei?

«Beh non credo che si sarebbe fatto scrupoli solo perché sono una donna. Lei non ha visto come ha ridotto il collega del 118, uno così poteva fare qualunque cosa».

Per essere un ferito era in forze, le pare?

«Già, in realtà avrebbe potuto evitare di farsi trasportar­e dal 118. Ha solo occupato inutilment­e un mezzo, senza parlare del fatto che ha provocato un trauma cranico a chi era lì per prendersi cura di lui. È entrato come codice verde, questo significa che non aveva nulla di serio».

Nonostante tutto ha saputo tenere il sangue freddo.

«Chi come me lavora nell’emergenza non si scompone troppo. Quell’uomo era di corporatur­a robusta e pieno di tatuaggi, anche se non avesse aggredito un collega, l’aspetto mi avrebbe comunque messa in allarme. Sono scappata nello spogliatoi­o perché ho capito che stava per scattare».

È mai stata aggredita a lavoro?

«A me non è mai capitato, ma ci sono andata vicino molte volte. Anni fa, il padre di un ragazzo mi ha inseguita. Avevo assegnato al figlio un codice giallo per una polmonite, quando chiesi come mai avesse portato il figlio in ospedale, e non dal medico di famiglia, andò fuori di testa. Per alcune persone è normale prendere a testate un medico o un infermiere. Quasi come se fosse conseguenz­a naturale di una discussion­e».

Come donna, è più difficile fare questo lavoro?

«Non so se è più difficile, credo che sia dura per tutti. Ma ripeto, non ho paura, sono arrabbiata».

Cosa si potrebbe fare per cambiare le cose?

«Le telecamere possono aiutare, ma serve anche il riconoscim­ento di status di pubblico ufficiale. Serve una denuncia automatica, d’ufficio. E poi servirebbe una sorta di “schedatura” dei pazienti che aggredisco­no. Così da allertarci quando dovessero tornare in pronto soccorso. Chi aggredisce una volta probabilme­nte lo rifarà».

Cosa pensa la sua famiglia, hanno paura?

«Quando sono con loro ho sempre un atteggiame­nto molto pacato. Non porto il lavoro a casa, anche se l’adrenalina della giornata è qualcosa che ti resta addosso. Credo che mio marito preferireb­be che io facessi altro e anche i miei figli hanno paura».

Lei ha mai pensato di mollare?

«Faccio questo lavoro da 30 anni, non lo cambierei per nulla al mondo. L’ho scelto io, prima studiavo pedagogia. No, non cambierei. Non ho mai avuto problemi con i pazienti, perché riesco a farmi capire e a stabilire con loro un buon canale di comunicazi­one. I problemi maggiori si hanno con i familiari, che spesso sono aggressivi».

Se potesse, cosa direbbe a chi aggredisce?

«Che non ha senso prendersel­a con chi sta cercando di aiutarti».

La rabbia Avrebbe potuto evitare di farsi trasportar­e dal 118. Ha solo occupato inutilment­e un mezzo, senza parlare del fatto che ha provocato un trauma cranico a chi era lì per prendersi cura di lui. È entrato come codice verde, questo significa che non aveva nulla di serio

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