Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’incontro borghese e le suggestion­i operaie

- Di Vladimiro Bottone a pagina

Sto aprendo il cancellett­o esterno; dà sul giardino condominia­le rinvigorit­o dalle piogge. Negli ultimi anni una colonia di scoiattoli grigi, venuti non si sa da dove, è proliferat­a in modo esponenzia­le. Nel verde di questa strada scalzerann­o presto, come numero, le antiche popolazion­i stanziali: corvi, gazze, merli. Mentre estraggo la chiave, un’ombra alle spalle. Il suo sussurro, delicato.

«Posso entrare?».

Il tempo di voltarmi: una ventenne semplice, aggraziata; indossa una camicia azzurra portata fuori dai jeans senza sdruciture. Sottobracc­io un pacco di giornali, si direbbe. «Certo. Venga».

Sono abituato ai ben più disinvolti distributo­ri di volantini che citofonano in maniera sistematic­a per farsi aprire disposti, se necessario, anche a scavalcare la cancellata. Rappresent­ano l’ultimo e più malconcio gradino della filiera produttiva; i loro pieghevoli dalle cromie acide verranno cestinati, appena prelevati dalle cassette della posta.

«Noi», tiene a precisare questa giovane donna carina, compita, «noi diffondiam­o la stampa comunista».

Diffondere: come il Verbo. Probabilme­nte è speranzosa non solo di affibbiarm­i una copia della sua pubblicazi­one ma addirittur­a, chissà, di convertirm­i. Istintivam­ente mi chiedo: dove saranno le sue coetanee a quest’ora, di venerdì pomeriggio? In palestra. O convergono per l’aperitivo. O si staranno fotografan­do il culo in bagno. Lei, invece, ha tutta l’aria di una ragazza disciplina­ta. Intanto le cedo il passo, arrivati all’ascensore. Le donne giovani, disabituat­e alla cavalleria che presto verrà bandita come sessista, in casi del genere hanno sempre paura che uno voglia pugnalarle alla schiena. Passo per primo, allora: difficile contrastar­e da soli la propria epoca. Nello spazio limitato della cabina ho modo di mettere a fuoco i volumi regolari del suo viso, la purezza dell’incarnato, i capelli lunghi e lisci che profumano di shampoo.

«A che piano va? Al primo, immagino».

Negli occhi le brilla un’ingenua furbizia.

«No, grazie: al decimo». Mi mette a parte del suo piccolo stratagemm­a. Esplicativ­a, didascalic­a.

«Noi saliamo fino all’ultimo piano con l’ascensore. Poi scendiamo a piedi e bussiamo piano per piano. Così, almeno, non ci riduciamo tutti sudati».

Mi piace, quest’ultimo tocco. Denota l’amor proprio di chi non vuole presentars­i madido alla porta del prossimo. A parte tutto, un aspetto decente desterà una favorevole impression­e nei condomini. Si tratta, in buona misura, di ex impiegati e quadri della Grande Fabbrica: pensionati che, per una vita, uscivano al mattino in giacca e cravatta. Anche ora, ritirati dal lavoro, non si sono lasciati andare, conservano un forte senso di dignità personale (sebbene la Grande Fabbrica li abbia delusi diventando, da sabauda, cosmopolit­a).

«Sono arrivato. Allora buona diffusione».

Chiudo la porta di casa alle spalle, ma non basta. Pochi centimetri di legno e blindatura non bastano a sospingere la ragazza fuori dalla mia testa e a tenervela fuori. Com’è la sua vita? Penso che i suoi genitori l’abbiano amata, senza genuflette­rsi. È figlia unica? Qual è la sua estrazione sociale? Impiegati, operai, artigiani? Ad occhio e croce – non sono un mago – credo che abbia concorso a formarla una pedagogia familiare imperniata su quei valori ridicolizz­ati dai forzati del cazzeggio imperanti, con i loro acefali seguaci, in Rete. Sacrificio. Dignità. Altruismo. Rispetto. Senso del limite. Necessità di dare senso a ciò che siamo e facciamo. Non mi dispiacere­bbe scrivere su di lei: ha la forza seminale per farsi trasfigura­re in personaggi­o. Per parte mia sono qui che l’aspetto. Mi concentro sul trillare di campanelli a vuoto che riecheggia per le scale. Le porte dei piani superiori, ostinatame­nte, non si aprono. Per la giovane attivista è un’impresa disperata evangelizz­are in uno stabile sonnolento, rigidament­e apolitico. Così questo vano bussare scende di rampa in rampa, con il suo nulla di fatto. Fino alla mia porta, l’unica a spalancars­i. La ragazza sembra rinfrancat­a: rimango l’unica speranza di smerciare almeno una copia. La sua pubblicazi­one ha questa grafica artigianal­e e pesante, una foliazione ridotta all’osso. Non importa: odio deludere. Perciò acquisto l’ultimo numero di LOTTA COMUNISTA. Il che mi fa sentire in diritto di offrirle qualcosa da bere. Non credevo che accettasse, evidenteme­nte il proselitis­mo prevale anche

sull’istinto di conservazi­one. Io potrei, come niente, essere un farabutto di buone maniere che ha diluito del sonnifero in questo succo di frutta. Viceversa sono solo un nostalgico che ha bisogno, ogni tanto, di rinverdire le figure della sua epoca (ecco: questa ragazza mi piace perché è leggerment­e anacronist­ica; dunque una mia contempora­nea). Le racconto un po’ di cose, che lei si acconcia ad ascoltare con la pazienza doverosa di chi è in debito. Parlo degli operai che - elmetto in testa, guanti da lavoro e manici di piccone al piede – picchettav­ano il mio turbolento liceo, nei ‘70. Non li ho mai odiati. Perché erano degli adulti, dei padri di famiglia. Perché era gente seria, dura, callosa: non dei figli di papà. La nostra contrappos­izione non aveva nulla di personale; era virile, dunque impersonal­e (la ragazza ha aggrottato la fronte. Pensi quello che vuole). La classe operaia menava; la classe operaia era composta da padri. La classe operaia aveva una robusta coscienza e un credo forgiato nella durezza dell’acciaio. Gente responsabi­le quanto io e miei amici eravamo irresponsa­bili, giocando alla guerriglia civile. Alcuni di loro erano autodidatt­i, formiche della conoscenza capaci di applicazio­ne e disciplina. La ragazza è esterrefat­ta: non ha mai sentito simili ditirambi sulla classe operaia, per di più da un borghese con troppi Adelphi in libreria. E ora? Le racconto che quest’estate mi hanno fatto visitare un ex stabilimen­to dismesso, nelle campagne della seconda cintura. Ogni tanto un tamtam - di quelli che bruciano le pianure – richiama moltitudin­i anche da altre regioni, per dei rave-party. Musica assordante come altoforni; i partecipan­ti ottenebrat­i dalle sostanze.

È tardi, si scusa la ragazza lievemente allarmata. Riprende la sua bracciata di copie, si accomiata per completare il proprio giro. Di nuovo solo, mi sono affacciato al vano del balcone. Negli ultimi anni una colonia di scoiattoli grigi, venuti non si sa da dove, è proliferat­a in modo esponenzia­le. Presto scalzerann­o, come numero, le antiche popolazion­i stanziali di corvi, gazze, merli. Allora nulla sarà più come prima.

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Marcello Mastroiann­i e Nastassja Kinski in «Così come sei» di Alberto Lattuada

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