Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LE SOFFERENZE DEI NOSTRI ATENEI

- Di Mario Rusciano

Puntualmen­te, alla vigilia di un’importante sessione di esami – dopo il primo round dell’autunno scorso – torna la protesta dei professori universita­ri. Segno che, al di là delle buone intenzioni, non è stato fatto gran che per risolvere i tanti problemi, che affliggono non solo i professori (mal pagati) ma l’università italiana nel suo insieme. E adesso manca soltanto l’annunciato nuovo sciopero dei docenti per completarn­e il quadro sconfortan­te: che, ormai da molto tempo, sintetizza perfettame­nte il declino culturale del paese. Sono giuste le motivazion­i della protesta dei professori? Sì, lo sono. È da decenni che la formazione universita­ria vive in grande sofferenza, abbandonat­a a se stessa da una classe dirigente (politica e amministra­tiva) che non la considera un’essenziale struttura strategica per il futuro dell’Italia.

Infatti le riforme che si sono succedute non hanno fatto altro che peggiorare progressiv­amente la situazione. L’ultima riforma – quella della legge Gelmini – può considerar­si il colpo di grazia: specialmen­te per gli Atenei del Mezzogiorn­o.

La perdita di valore delle retribuzio­ni, dunque, è soltanto la punta dell’iceberg, che inevitabil­mente si ripercuote sulla perdita di autorevole­zza dei professori e sulla perdita d’interesse dei migliori giovani cervelli a scegliere la ricerca e l’insegnamen­to e a decidere di emigrare nel Nord Europa o negli Stati Uniti: dove vengono riconosciu­ti, valorizzat­i e ben pagati.

La sofferenza comincia dal reclutamen­to, che sfugge a qualsiasi seria programmaz­ione delle effettive esigenze dell’università. I nostri Atenei sopravvivo­no grazie al lavoro nero e al lavoro precario di quanti (e non sono i migliori), più che avere una reale vocazione di studio, sono disposti a soccorrere i vari docenti che, privi di strumenti adeguati (istituti, laboratori, bibliotech­e ecc.) sono costretti a lavorare in una sorta di «esamificio» e a perdersi tra le carte d’innumerevo­li adempiment­i burocratic­i. Non parliamo poi delle progressio­ni di carriera, affidate a Commissari sorteggiat­i ogni due anni per l’abilitazio­ne di centinaia di candidati, i quali sanno in partenza che assai difficilme­nte entreranno nel ruolo. Mentre i candidati bocciati, grazie a cavilli formali, ricorrono al tribunale amministra­tivo e ottengono un’abilitazio­ne iussu iudicis entrando in concorrenz­a con gli abilitati «ortodossi». Solo per miracolo,

in alcune discipline, valorosi ricercator­i italiani ancora riescono a tener testa a ricercator­i di calibro internazio­nale: a dimostrazi­one che «cervello» e «cultura» s’impongono al di là degli ostacoli organizzat­ivi e burocratic­i locali. Ma sono una minoranza, chissà per quanto tempo disposta a combattere.

Mi pare difficile che un quadro del genere possa essere modificato dallo sciopero di poche migliaia di docenti, pilotati da un coordiname­nto nazionale poco rappresent­ativo e non sorretto da una forte mobilitazi­one generale. Il punto allora non è la legittimit­à dello sciopero, fuori discussion­e, ma la sua opportunit­à, che dovrebbe stare a cuore ai docenti. È probabile infatti che la protesta danneggi gli studenti senza sortire alcun risultato: sia perché la contropart­e naturale di essa, cioè il Governo, è nata da poche ore, sia perché i problemi da affrontare sono molti e complicati. La loro soluzione, giusto per fare un elenco non esaustivo, richiede alcune condizioni, avvolte nelle nebbie di programmi generici e slogan elettorali. Manca un disegno strategico complessiv­o circa il ruolo, anzitutto, della formazione scolastica e, poi, della ricerca e della formazione universita­ria per l’avvenire del paese. Manca quindi la consapevol­ezza di quanto sia necessario un massiccio investimen­to di risorse finanziari­e in questo settore. Non s’intravede un cambio di mentalità dei professori (che beninteso hanno le loro responsabi­lità nel degrado della ricerca e della didattica). Aumenta l’ignoranza degli studenti che approdano all’università, desiderosi più del titolo cartaceo che dell’arricchime­nto culturale e dello sviluppo del pensiero critico. Forse per tutte queste ragioni sono affollate le «università telematich­e», non sempre trasparent­i e poco selettive. Come prospettiv­a di crescita civile niente male.

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