Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LE SOFFERENZE DEI NOSTRI ATENEI
Puntualmente, alla vigilia di un’importante sessione di esami – dopo il primo round dell’autunno scorso – torna la protesta dei professori universitari. Segno che, al di là delle buone intenzioni, non è stato fatto gran che per risolvere i tanti problemi, che affliggono non solo i professori (mal pagati) ma l’università italiana nel suo insieme. E adesso manca soltanto l’annunciato nuovo sciopero dei docenti per completarne il quadro sconfortante: che, ormai da molto tempo, sintetizza perfettamente il declino culturale del paese. Sono giuste le motivazioni della protesta dei professori? Sì, lo sono. È da decenni che la formazione universitaria vive in grande sofferenza, abbandonata a se stessa da una classe dirigente (politica e amministrativa) che non la considera un’essenziale struttura strategica per il futuro dell’Italia.
Infatti le riforme che si sono succedute non hanno fatto altro che peggiorare progressivamente la situazione. L’ultima riforma – quella della legge Gelmini – può considerarsi il colpo di grazia: specialmente per gli Atenei del Mezzogiorno.
La perdita di valore delle retribuzioni, dunque, è soltanto la punta dell’iceberg, che inevitabilmente si ripercuote sulla perdita di autorevolezza dei professori e sulla perdita d’interesse dei migliori giovani cervelli a scegliere la ricerca e l’insegnamento e a decidere di emigrare nel Nord Europa o negli Stati Uniti: dove vengono riconosciuti, valorizzati e ben pagati.
La sofferenza comincia dal reclutamento, che sfugge a qualsiasi seria programmazione delle effettive esigenze dell’università. I nostri Atenei sopravvivono grazie al lavoro nero e al lavoro precario di quanti (e non sono i migliori), più che avere una reale vocazione di studio, sono disposti a soccorrere i vari docenti che, privi di strumenti adeguati (istituti, laboratori, biblioteche ecc.) sono costretti a lavorare in una sorta di «esamificio» e a perdersi tra le carte d’innumerevoli adempimenti burocratici. Non parliamo poi delle progressioni di carriera, affidate a Commissari sorteggiati ogni due anni per l’abilitazione di centinaia di candidati, i quali sanno in partenza che assai difficilmente entreranno nel ruolo. Mentre i candidati bocciati, grazie a cavilli formali, ricorrono al tribunale amministrativo e ottengono un’abilitazione iussu iudicis entrando in concorrenza con gli abilitati «ortodossi». Solo per miracolo,
in alcune discipline, valorosi ricercatori italiani ancora riescono a tener testa a ricercatori di calibro internazionale: a dimostrazione che «cervello» e «cultura» s’impongono al di là degli ostacoli organizzativi e burocratici locali. Ma sono una minoranza, chissà per quanto tempo disposta a combattere.
Mi pare difficile che un quadro del genere possa essere modificato dallo sciopero di poche migliaia di docenti, pilotati da un coordinamento nazionale poco rappresentativo e non sorretto da una forte mobilitazione generale. Il punto allora non è la legittimità dello sciopero, fuori discussione, ma la sua opportunità, che dovrebbe stare a cuore ai docenti. È probabile infatti che la protesta danneggi gli studenti senza sortire alcun risultato: sia perché la controparte naturale di essa, cioè il Governo, è nata da poche ore, sia perché i problemi da affrontare sono molti e complicati. La loro soluzione, giusto per fare un elenco non esaustivo, richiede alcune condizioni, avvolte nelle nebbie di programmi generici e slogan elettorali. Manca un disegno strategico complessivo circa il ruolo, anzitutto, della formazione scolastica e, poi, della ricerca e della formazione universitaria per l’avvenire del paese. Manca quindi la consapevolezza di quanto sia necessario un massiccio investimento di risorse finanziarie in questo settore. Non s’intravede un cambio di mentalità dei professori (che beninteso hanno le loro responsabilità nel degrado della ricerca e della didattica). Aumenta l’ignoranza degli studenti che approdano all’università, desiderosi più del titolo cartaceo che dell’arricchimento culturale e dello sviluppo del pensiero critico. Forse per tutte queste ragioni sono affollate le «università telematiche», non sempre trasparenti e poco selettive. Come prospettiva di crescita civile niente male.