Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le webcam e i gps contro l’esercito dei nuovi sanfedisti
Se fosse stata pubblicata a Fallujah, la notizia del nuovo equipaggiamento in dotazione al 118 (divise con webcam in alta definizione, visore notturno, localizzatore gps, telecamere da cruscotto sulle ambulanze) non avrebbe fatto una piega. Napoli, però, non è in guerra. Almeno, non in una guerra dichiarata.
Meglio ancora: se c’è stata una dichiarazione di guerra, non è stata recepita. Sarà andata persa.
Andiamo con ordine: un operatore del pronto intervento sanitario viene aggredito a testate da un tizio che non gradisce, come destinazione prescelta, l’ospedale Cardarelli. Vuole essere portato altrove, il signore, così esprime tutto il proprio dissenso con quelli che chiameremo «cenni del capo». In ospedale prova ad aggredire anche un’infermiera. I medici, come riporta Raffaele Nespoli nel suo articolo per il Corriere del Mezzogiorno, scrivono su una pagina Facebook che si tratta dell’aggressione numero 39 dall’inizio dell’anno.
Da napoletani, è legittimo chiedersi: ma quanto dev’essere stupido chi non afferra il paradosso che si scatena quando bisogna salvare quelli che hanno il compito di salvare? Eppure, se si è costretti a ricorrere agli «armamenti speciali», gli stupidi devono essere parecchi. Già in Gomorra (documentale e anticipatore) c’era un racconto analogo: i paramedici che andavano a soccorrere i feriti da arma da fuoco dovevano stare molto attenti. Se salvavano la persona sbagliata, passavano un guaio. In pratica, il paradosso si spingeva a livelli estremi: bisognava salvare quelli che dovevano salvare quelli che però non andavano salvati. Fa sorridere? Forse i non napoletani.
Quelli che sono abituati a una quotidianità fatta di prevaricazione e prepotenza votata, però, all’autolesionismo (chi è più autolesionista di colui che aggredisce il proprio soccorritore?), non ridono più. Non ridono da molto, ormai. La notizia (vera) delle auto della polizia sequestrate perché senza assicurazione, non è più divertente. E neanche quella (vera, ma datata) del carro attrezzi multato perché – anche questo – senza assicurazione. E neanche quella degli intrepidi baby banditi che ogni anno rubano o distruggono l’albero di Natale in Galleria Umberto I, annientando anche quella minima pretesa di civiltà semi-istituzionale. Non c’è più nulla di divertente. Neanche più folclore, lo si può considerare, perché il folclore ha sempre un valore attrattivo, non respingente e denigratorio.
I napoletani non ridono più, perché, appunto, riescono a distinguere nella gozzoviglia macchiettistica che li stereotipa al Nord un guanto di sfida, i tamburi di guerra; e per vedere i morti e i feriti non hanno bisogno di null’altro che di uno specchio.
La dichiarazione di guerra è stata fraintesa, o comunque non ci si è accorti del cambio di fronte. Non è (più) guerra ai «potenti», non allo Stato, non alle istituzioni, ma ai propri stessi concittadini. Più che di questione meridionale, sarebbe forse il caso di parlare di «questione partenopea»: Napoli è una città nei cui confini si agita, scomposto, un esercito ribelle che non sa neanche per cosa combatte, ma sa bene contro chi: contro tutti quelli che seguono le regole del vivere civile.
È un grosso errore, quindi, considerare Napoli come un focolaio indistinto e omnicomprensivo di rivolta al potere. Quello andava bene ai tempi di Masaniello. Oggi Napoli non lotta più contro lo Stato, contro il Nord, contro gli oppressori: lotta contro se stessa. Lotta contro quelli che la vogliono salvare. Quando arriveranno gli alleati?