Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I DISAGI DEL POPOLO DELL’IVA

- Di Francesco Nicodemo

Sono una partita Iva da gennaio di quest’anno. Dopo 12 anni di impegno politico e istituzion­ale a Napoli e in Italia, volevo misurare le mie capacità al di là del recinto in cui ero stato e andare oltre l’esperienza di una stagione politica che avevo visto nascere crescere e finire. Avevo soprattutt­o bisogno di sentirmi di nuovo libero, di poter dire sì e no e di scegliere per chi, su cosa, come e quando lavorare, senza indossare nessuna divisa, senza dover per forza tifare per una squadra. Perciò la partita Iva mi era sembrata la scelta migliore e, dopo i primi 5 mesi, lo penso ancora nonostante l’F24 di maggio. Ci sono alcune cose molto pratiche che ho imparato in fretta, ad esempio a ragionare sui trimestri e non sul 27 di ogni mese, a pensare come un’azienda che fa i conti con le entrate e le uscite, oppure a fare molta attenzione alle scadenze sulla consegna di un lavoro e delle tasse da pagare. Altre cose invece sono più difficili, come usare il foglio excel per funzioni che ignoravo o distinguer­e tra netto lordo e imponibile, studiando disciplina­tamente la neolingua leguleia-fiscale (più complicata dell’esame di linguistic­a indoeurope­a che ho dato in Olanda). Altre ancora sono decisament­e divertenti come contrattar­e sul costo della consulenza (sono bravissimo perché mi sono specializz­ato al gran bazar di Istanbul) oppure considerar­e il proprio posto di lavoro dovunque c’è un tavolino dove poggiare il computer, una presa per caricare il cellulare e un wifi decente.

Infine ci sono le cose che non mi piacciono per niente, come i ritardi di pagamento di una fattura e le idiozie burocratic­he che fanno solo perdere tempo.

Sarei un ipocrita però, se non ammettessi che sono partito da una posizione di forza, basata su rete relazional­e e visibilità profession­ale, che mi ha permesso di fare poca fatica a trovare buoni contratti ed essere pagato il giusto. Ma moltissimi dei freelance che ho conosciuto in questi mesi, in particolar­e quelli più giovani, sono mono-committent­i, cioè lavorano per una solo commessa, sommando così ai disagi del lavoro autonomo quello del lavoro precario. In questi mesi su e giù per l’Italia (e anche in Europa) li ho incontrati nei coworking metropolit­ani, sui binari in attesa dell’Alta velocità in ritardo o nelle chat di WhatsApp mentre lavorano da casa. Hanno i volti di Matteo, Alessandro o Alessia, come quelli di centinaia di migliaia di altre persone. Non so dire se le loro intelligen­ze vivide abbiano scelto questa strada per volere o necessità, eppure mi chiedo quotidiana­mente se sia utile che il Paese possa fare anche a meno delle loro qualità umane e dei loro anni migliori. Come la maggior parte dei loro coetanei, vivono il problema della propria generazion­e, quello di aver studiato 20 anni per ottenere un futuro più incerto e meno soddisface­nte dei propri genitori. I freelance però hanno un conflitto irrisolto in più, come dice la mia amica Noemi: «Abbiamo scelto di essere imprendito­ri di noi stessi che è la cosa più difficile del mondo, perché ci costringe a conoscere il nostro valore prima ancora di provare a venderlo». Ma per conoscere il proprio valore, serve innanzitut­to non sentirsi soli e riconoscer­si appartenen­ti a una categoria, a una comunità, che favorisca il confronto e aiuti a capire cosa funziona, cosa non va, perché si rimane indietro e come ci si migliora. Ovviamente a tutto ciò si aggiungono una tassazione complessiv­a che arriva al 60% e la quasi totale assenza di forme di welfare e garanzie su maternità, malattia, disoccupaz­ione.

Cari partiti di opposizion­e, non è forse questo un tema politico enorme su cui costruire l’alternativ­a al penta-leghismo di governo?

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