Corriere del Mezzogiorno (Campania)
I DISAGI DEL POPOLO DELL’IVA
Sono una partita Iva da gennaio di quest’anno. Dopo 12 anni di impegno politico e istituzionale a Napoli e in Italia, volevo misurare le mie capacità al di là del recinto in cui ero stato e andare oltre l’esperienza di una stagione politica che avevo visto nascere crescere e finire. Avevo soprattutto bisogno di sentirmi di nuovo libero, di poter dire sì e no e di scegliere per chi, su cosa, come e quando lavorare, senza indossare nessuna divisa, senza dover per forza tifare per una squadra. Perciò la partita Iva mi era sembrata la scelta migliore e, dopo i primi 5 mesi, lo penso ancora nonostante l’F24 di maggio. Ci sono alcune cose molto pratiche che ho imparato in fretta, ad esempio a ragionare sui trimestri e non sul 27 di ogni mese, a pensare come un’azienda che fa i conti con le entrate e le uscite, oppure a fare molta attenzione alle scadenze sulla consegna di un lavoro e delle tasse da pagare. Altre cose invece sono più difficili, come usare il foglio excel per funzioni che ignoravo o distinguere tra netto lordo e imponibile, studiando disciplinatamente la neolingua leguleia-fiscale (più complicata dell’esame di linguistica indoeuropea che ho dato in Olanda). Altre ancora sono decisamente divertenti come contrattare sul costo della consulenza (sono bravissimo perché mi sono specializzato al gran bazar di Istanbul) oppure considerare il proprio posto di lavoro dovunque c’è un tavolino dove poggiare il computer, una presa per caricare il cellulare e un wifi decente.
Infine ci sono le cose che non mi piacciono per niente, come i ritardi di pagamento di una fattura e le idiozie burocratiche che fanno solo perdere tempo.
Sarei un ipocrita però, se non ammettessi che sono partito da una posizione di forza, basata su rete relazionale e visibilità professionale, che mi ha permesso di fare poca fatica a trovare buoni contratti ed essere pagato il giusto. Ma moltissimi dei freelance che ho conosciuto in questi mesi, in particolare quelli più giovani, sono mono-committenti, cioè lavorano per una solo commessa, sommando così ai disagi del lavoro autonomo quello del lavoro precario. In questi mesi su e giù per l’Italia (e anche in Europa) li ho incontrati nei coworking metropolitani, sui binari in attesa dell’Alta velocità in ritardo o nelle chat di WhatsApp mentre lavorano da casa. Hanno i volti di Matteo, Alessandro o Alessia, come quelli di centinaia di migliaia di altre persone. Non so dire se le loro intelligenze vivide abbiano scelto questa strada per volere o necessità, eppure mi chiedo quotidianamente se sia utile che il Paese possa fare anche a meno delle loro qualità umane e dei loro anni migliori. Come la maggior parte dei loro coetanei, vivono il problema della propria generazione, quello di aver studiato 20 anni per ottenere un futuro più incerto e meno soddisfacente dei propri genitori. I freelance però hanno un conflitto irrisolto in più, come dice la mia amica Noemi: «Abbiamo scelto di essere imprenditori di noi stessi che è la cosa più difficile del mondo, perché ci costringe a conoscere il nostro valore prima ancora di provare a venderlo». Ma per conoscere il proprio valore, serve innanzitutto non sentirsi soli e riconoscersi appartenenti a una categoria, a una comunità, che favorisca il confronto e aiuti a capire cosa funziona, cosa non va, perché si rimane indietro e come ci si migliora. Ovviamente a tutto ciò si aggiungono una tassazione complessiva che arriva al 60% e la quasi totale assenza di forme di welfare e garanzie su maternità, malattia, disoccupazione.
Cari partiti di opposizione, non è forse questo un tema politico enorme su cui costruire l’alternativa al penta-leghismo di governo?