Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Gianni Cesarini
Dalla musica allo zen La terza via di un maestro nel paradiso di Lanzarote
«Mentre tornavamo verso l’albergo, composi questa poesia in onore dei poeti ermetici
francesi: Cammello / Presenza di cammelli / Il mio minibus si è perduto». Così scrive Houellebecq in Lanzarote, reportage di un viaggio nell’isola omonima alla fine del 1999. Ma la perla rocciosa delle Canarie non è solo i cammelli, gli houellebecqiani cactus fallici nella riserva del Timanfaya, e le attempate turiste inglesi che ascoltano country nei pub eurotrash di Puerto del Carmen. Lanzarote è anche le carretere infinite nel paesaggio lunare sotto il vento battente. Il cielo lattiginoso sull’asperrima spiaggia del Papagayo, una scheggia d’oceano acquamarina in fondo a una caletta rocciosa ripidissima. Soprattutto è la base di Gianni Cesarini, classe 1945: naturopata, maestro zen, fotografo, musicologo, venditore di dischi, ecologista radicale – che qui un paio di volte al mese (il resto del tempo vive a Gran Canaria), dispensa conforto e cure. A malati di cancro, o di malattie immunoterapiche – la sua specialità – o semplicemente a gente che vivaddio vuole vivere fino a 130 anni. Che poi è l’età normale per cui il nostro corpo sarebbe programmato. «Per loro sono un mito», dice socchiudendo sornione gli occhi aztechi. La bellezza eterea è la stessa che menzionano sempre tutti quelli che l’hanno conosciuto da giovane.
Anni fa chiesi al mio grande amico Eduardo, che oggi mi accompagna da Cesarini, una cosa molto difficile: «Come si fa a trovare un maestro?». Risposta semplicissima: «Come quando vuoi prendere il treno: innanzitutto decidi di andare alla stazione. Poi aspetti che passa». Se oggi il nostro treno è Gianni Cesarini, non lo sappiamo – così molteplice e inattingibile è l’uomo. Sappiamo però che questo settantenne che di anni ne dimostra dieci in meno, i suoi maestri ce li ha chiarissimi: «Arturo Fratta per la scrittura. Giuseppe Alario e il signor Schulte per la fotografia. Jon Boner per la pratica zen. Scolasticamente sono autodidatta. Non ho nemmeno finito le medie perché mi hanno cacciato da scuola».
Fortunato è chi riconosce i propri maestri quando li incontra. Più fortunato ancora chi riconosce in sé il seme di un maestro. Massimamente quando di vite ne ha vissute, in una sola, quante di norma entrerebbero in tre o quattro reincarnazioni.
«Sono nato in vico Settimo Duchesca, un rione poverissimo. Vivevamo in un convento riciclato a abitazione: cinque famiglie, un solo bagno. Mio padre vendeva scarpe, mia madre pascolava le capre. L’unica carta stampata in casa era il calendario appeso al muro».
Precocissima la passione per la musica. A cinque anni Gianni si attacca alla radio e impara a memoria le opere liriche. Ma siccome per suo padre “i musicisti sono tutti ricchioni”, gli si spalanca davanti, atroce, un futuro di venditore di scarpe. Intervengono mamma e nonna regalandogli un pianoforte a mezza coda. Soprattutto interviene, verso i 12 anni, il maestro Sergio Fiorentino.
«Una volta suonò in quattro sessioni, una a settimana, tutta l’opera di Rachmaninov: un’impresa pianisticamente mostruosa». Allievo di Benedetti Michelangeli, pianista tanto sublime quanto bistrattato in vita, Sergio Fiorentino è un genio. «Padroneggiava qualsiasi cosa in pochissimo tempo. Era campione di tiro, girava con una Colt 38 con il cinturone da cowboy. Si comprò un Commodore e dopo qualche settimane programmava da sé. Unica pecca: automobilista pessimo. In macchina con lui dovevi prendere i calmanti».
Da Fiorentino, Cesarini apprende i primi rudimenti di musicologia che lo avvieranno alla critica musicale. Non prima, però, di aver trasformato il negozio di scarpe in fallimento in un negozio di dischi. «Sfruttavo l’anomalia di questo negozio alla Duchesca, dove c’era un ragazzo vestito da dandy che parlava perfettamente italiano e sapeva tutto di musica. Tirai fuori la mia famiglia dalla miseria. Comprammo un attico a piazza Nazionale».
Di negozi ce ne saranno altri negli anni: su tutti, la mitologica discoteca Scarlatti a via Merliani. Un’epopea di successi, fallimenti, furti, delinquenza, rogne fiscali e tutto le fisiologiche tarantelle del commercio a Napoli (una volta, per salvarlo dalla bancarotta, Fiorentino gli dona i soldi che aveva messo da parte per il suo nuovo Steinway: «Mi insegnò che se un amico è in difficoltà va aiutato senza dargli l’umiliazione di chiederglielo»). Ma il talento di Cesarini è proteiforme. E in tutte le sue incarnazioni c’è sempre un momento ritornante: qualcuno – esperto / grande artista / potenziale datore di lavoro – che assiste al suo lavoro e sbalordisce. Così Schulte dell’omonimo studio fotografico di via Tarsia quando un Cesarini appena ventenne gli porta il suo primo rullino. «Per fare foto così hai studiato in Svizzera?» / «No, mi vengono naturali». La seconda vita di Cesarini è con la Leika in mano: il Living Theatre, la beat generation, il volto da dio greco di Pasquale Squitieri, Cesarini fotografa tutti e diventa famoso. «Con le foto potevo diventare ricco». Invece prima dei trent’anni molla tutto. Chiamatela inquietudine, chiamatela ruota del karma: «Mi svegliai una mattina e decisi che avrei vissuto di giornalismo e scrittura».
Gli anni da critico musicale al Mattino sono belli e difficili. Cesarini si afferma ma sta sulle scatole a tutti perché «Potevo scrivere all’impronta un pezzo sul trallalero genovese in 4 minuti senza rileggerlo». Finisce che al giornale gli fanno la guerra e il nostro, quando una ricca moglie di armatore gli offre di scrivere la biografia del tenore canario superstar Alfredo Kraus, accetta al volo. È la sua prima visita a Lanzarote. La biografia non si conclude perché Kraus si prende un cancro al pancreas un anno dopo la morte dell’amatissima moglie («Lui era nu scassacazz’. Lei lo seguiva dappertutto: durante le tournèe si metteva a fare l’uncinetto nel backstage»). Ma Cesarini di tornare a Napoli non ha nessuna voglia.
Passa due anni a pescare saraghi a Lanzarote. Poi, quando finiscono i soldi, decide che è tempo di nascere alla terza vita (o quarta o quinta, abbiamo perso il conto). «Ero da sempre appassionato di medicina: da bambino giocavo con le vitamine. Volevo capire il mistero della longevità e che cos’è la malattia. Ma ero troppo famoso in Italia per diventare un terapeuta – chi mi avrebbe creduto?»
Non così nel paradiso canario, dove la fama del medico di Napoli che cura con il sonno, le diete e l’omeopatia si afferma in pochissimo tempo. «È impossibile realmente ammalarsi: il corpo del malato è come un’orchestra stonata. Io correggo l’intonazione degli organi». Per farlo si avvale, tra le altre cose, di «un apparato di biorisonanza sviluppato in Russia per fare il checkup agli astronauti», e lavora «sull’ecologia del sonno. Perché è di notte, tra l’una e le quattro, che il fegato ripara da sé i nostri guasti».
Suonerà strano ma, prima di tutto, bisogna crederci – bisogna voler guarire davvero. Che non è scontato. «Molti utilizzano la malattia perché gli serve: per non lavorare, o per reclamare l’attenzione mancata da un marito o da una moglie. O perché sono convinti che il cancro sia incurabile». Il punto è che «Viviamo in una società che punta al cancro universale. Che in America muove più soldi delle industrie dell’auto e degli aerei messe insieme».
L’incontro con Jon Boner, maestro zen svizzero di fama internazionale, avviene così: perché la moglie ha un’artrite cronica che Cesarini cura in poche settimane. E ancora una volta, ecco la scena archetipica cesariniana – stavolta sulla spiaggia di Famara, tre chilometri di roccia vulcanica e surfisti: Boner «Cogli perfettamente i punti del massaggio cinese. Sei stato in Cina?», Cesarini: «No, ho visto dei video».
Un anno dopo Cesarini è maestro zen. Pratica che gli ha guadagnato «il controllo assoluto della mente. Io non conosco ansietà, depressione e paura».
Così oggi quando gli chiedi se gli manca Napoli, nella penombra di questa specie di ashram che è casa sua, ti risponde: «Mi manca il salotto di Mimmo Iodice, quando veniva Mario Pomilio e ci parlava del libro che stava scrivendo. Ma se mi guardo indietro, penso che sono partito dalla Duchesca e adesso sono un maestro di zen. I miei libri su Caruso e sulla Canzone napoletana sono finiti alla biblioteca del congresso di Washington. Direi che qualche cosa ho fatto». E la morte? «Penso che un giorno non mi sveglierò come non si svegliano gli hunza dell’Himalaya a 130 anni d’età».
Danzare con eleganza da una vita all’altra senza lasciare dietro di sé la cicatrice grigia del rimpianto. Non sappiamo se sta proprio in questo il seme di un maestro. Di una certa, geniale e molto partenopea, postura dello stare al mondo – di sicuro sì.
Il geniale pianista Sergio Fiorentino mi salvò dal futuro che mio padre voleva per me, cioè di venditore di scarpe
Con le foto potevo diventare ricco, ma un giorno mi svegliai e decisi che avrei vissuto di scrittura e di giornalismo