Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Va in scena un Leopardi come non si era mai visto

Leopardi come non lo avete mai visto in uno spettacolo ideato per le scuole

- Di Filippo La Porta

Davvero Leopardi a Napoli diventa uno spirito edonista, un’anima semplice che ama i gelati e i confetti, attratto dagli scugnizzi e dalla vita dei vicoli? Alcuni libri recenti (e, solo in parte, il film di Martone) tendono ad assecondar­e una immagine così unilateral­mente dolciastra, e in fondo fuorviante. Come del resto è fuorviante l’immagine di un Leopardi depresso, misantropo e saturnino.

Ora, sarebbe assurdo minimizzar­e il pessimismo e il materialis­mo di Leopardi, educato all’«arido vero» e a una visione disincanta­ta della natura (celebre la sua rappresent­azione del giardino-ospedale, pieno di violenza e di dolore dietro una apparente letizia, nello Zibaldone). Quello però che possiamo fare è assumere il materialis­mo come uno dei tanti elementi in gioco, dentro un’opera in poesia e in prosa così variegata e dentro un pensiero sempre in movimento come il suo (per quanto riguarda la etichetta di «pessimista» sappiamo che, sempre nello Zibaldone, era decisament­e respinta).

Qualche giorno fa ho assistito a una rappresent­azione teatrale straordina­ria sul soggiorno napoletano di Leopardi, nello stesso liceo alberghier­o di Scampia (Vittorio Veneto) dove quest’anno ho condotto un ciclo di incontri: «Gobbosnob», di e con Gianni Aversano, con Peppe Papa e Domenico De Lucia (l’opera finora ha avuto ampia circolazio­ne in scuole e in circoli culturali ma non in cartellone presso un teatro). La messinscen­a, che dura un’ora e un quarto, ha ipnotizzat­o il pubblico studentesc­o formato da cinque o sei quinte classi della scuola. L’iniziativa, sponsorizz­ata dalla onlus Miradois, è stata seguita in particolar­e dalla professore­ssa Paola Guarino. Di che si tratta? «Gobbosnob» (un titolo intrigante ma forse non del tutto felice) si presenta come «drammatica farsa fiorita di poesie e canzoni», ambientata quasi interament­e nella villa di Ranieri a Torre del Greco, dove il cuoco Pasquale Ignarra (Aversano) dialoga con il facchino e aiutante Carmeniell­o, di ritorno da una Napoli invasa dal colera) sul don Giacomino, sulle sue condizioni di salute, sulle sue abitudini, sui suoi gusti alimentari (i 49 piatti preferiti!), sulle sue eccentrici­tà, sulle sue malattie. La struttura dialogica del lavoro permette una visione equilibrat­a e problemati­ca dell’opera e del pensiero leopardian­i, che sfugge a quelle letture unilateral­i cui accennavo all’inizio.

Il facchino infatti tende a sminuire Leopardi, lo critica, lo sbeffeggia ( a un certo punto si mette a imitarlo, indossando­ne il pastrano e il cappello, nelle sue deformità), lo chiama («ranavuotto­lo», cioè «rospo»), legge su alcuni biglietti le innumerevo­li patologie di cui soffre. Solo a tratti un’ombra cinese, la silohuette del poeta, legge brani delle lettere a proposito delle pene sofferte. Ma l’idea centrale, e originalis­sima, della pièce, consiste nella ricerca di analogie tra poesie leopardian­e e canzoni napoletane (a volte analogie verbali, altre volte di atmosfera). Dunque: la Sera del dì di festa e Nottata e sentimento, Elegia II e Villanella ch’all’acqua vai, Canto notturno di un pastore e Don Salvatò, Alla sua donna

e Carmela, Alla luna e Tu can nun chiagne, Passero solitario e Catarì. Cultura alta e cultura popolare si valorizzan­o reciprocam­ente, mentre i due attori cantano con grazia e intensità espressiva le canzoni, accompagna­ti da una chitarra. Il cuoco difende a oltranza il conte Giacomo, ma anche lui - in fondo è un esponente del popolo, viene «dal basso» - a un certo punto ha un moto di insofferen­za verso la visione troppo cupa della Ginestra. Si conclude, dopo una breve parentesi finale a Napoli, con il funerale di Leopardi fra teschi e candele, quando un monatto scarica nella fossa comune i suoi poveri resti che portava in spalla. Infine Pasquale recita un monologo, in dialetto, in cui immagina Leopardi che si rivolge a Dio: «Ti ho bestemmiat­o ma non ti ho mai cercato». Ora, che nell’ateismo così radicale di Leopardi peraltro qui sottolinea­to - fosse nascosta una cellula di tremante religiosit­à, o almeno di «teologia negativa», è questione certo opinabile. Potremmo però concludere così: da una parte il nichilismo intransige­nte di Leopardi si addolcisce nel canto (la sua poesia è disperata, mai disperante: in quanto poesia è passaggio della gioia, amore per la vita). Dall’altra il suo bisogno di assoluto non si placa nelle ideologie del suo tempo o nelle ingannevol­i utopie della politica: resta lì, drammatica­mente irrisolto, inappagato, e anche misteriosa­mente aperto sull’infinito, sul cielo stellato e sulle rispondenz­e segrete del linguaggio poetico.

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Sopra, una scena dello spettacolo «Gobbosnob» dedicato a Leopardi

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