Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Va in scena un Leopardi come non si era mai visto
Leopardi come non lo avete mai visto in uno spettacolo ideato per le scuole
Davvero Leopardi a Napoli diventa uno spirito edonista, un’anima semplice che ama i gelati e i confetti, attratto dagli scugnizzi e dalla vita dei vicoli? Alcuni libri recenti (e, solo in parte, il film di Martone) tendono ad assecondare una immagine così unilateralmente dolciastra, e in fondo fuorviante. Come del resto è fuorviante l’immagine di un Leopardi depresso, misantropo e saturnino.
Ora, sarebbe assurdo minimizzare il pessimismo e il materialismo di Leopardi, educato all’«arido vero» e a una visione disincantata della natura (celebre la sua rappresentazione del giardino-ospedale, pieno di violenza e di dolore dietro una apparente letizia, nello Zibaldone). Quello però che possiamo fare è assumere il materialismo come uno dei tanti elementi in gioco, dentro un’opera in poesia e in prosa così variegata e dentro un pensiero sempre in movimento come il suo (per quanto riguarda la etichetta di «pessimista» sappiamo che, sempre nello Zibaldone, era decisamente respinta).
Qualche giorno fa ho assistito a una rappresentazione teatrale straordinaria sul soggiorno napoletano di Leopardi, nello stesso liceo alberghiero di Scampia (Vittorio Veneto) dove quest’anno ho condotto un ciclo di incontri: «Gobbosnob», di e con Gianni Aversano, con Peppe Papa e Domenico De Lucia (l’opera finora ha avuto ampia circolazione in scuole e in circoli culturali ma non in cartellone presso un teatro). La messinscena, che dura un’ora e un quarto, ha ipnotizzato il pubblico studentesco formato da cinque o sei quinte classi della scuola. L’iniziativa, sponsorizzata dalla onlus Miradois, è stata seguita in particolare dalla professoressa Paola Guarino. Di che si tratta? «Gobbosnob» (un titolo intrigante ma forse non del tutto felice) si presenta come «drammatica farsa fiorita di poesie e canzoni», ambientata quasi interamente nella villa di Ranieri a Torre del Greco, dove il cuoco Pasquale Ignarra (Aversano) dialoga con il facchino e aiutante Carmeniello, di ritorno da una Napoli invasa dal colera) sul don Giacomino, sulle sue condizioni di salute, sulle sue abitudini, sui suoi gusti alimentari (i 49 piatti preferiti!), sulle sue eccentricità, sulle sue malattie. La struttura dialogica del lavoro permette una visione equilibrata e problematica dell’opera e del pensiero leopardiani, che sfugge a quelle letture unilaterali cui accennavo all’inizio.
Il facchino infatti tende a sminuire Leopardi, lo critica, lo sbeffeggia ( a un certo punto si mette a imitarlo, indossandone il pastrano e il cappello, nelle sue deformità), lo chiama («ranavuottolo», cioè «rospo»), legge su alcuni biglietti le innumerevoli patologie di cui soffre. Solo a tratti un’ombra cinese, la silohuette del poeta, legge brani delle lettere a proposito delle pene sofferte. Ma l’idea centrale, e originalissima, della pièce, consiste nella ricerca di analogie tra poesie leopardiane e canzoni napoletane (a volte analogie verbali, altre volte di atmosfera). Dunque: la Sera del dì di festa e Nottata e sentimento, Elegia II e Villanella ch’all’acqua vai, Canto notturno di un pastore e Don Salvatò, Alla sua donna
e Carmela, Alla luna e Tu can nun chiagne, Passero solitario e Catarì. Cultura alta e cultura popolare si valorizzano reciprocamente, mentre i due attori cantano con grazia e intensità espressiva le canzoni, accompagnati da una chitarra. Il cuoco difende a oltranza il conte Giacomo, ma anche lui - in fondo è un esponente del popolo, viene «dal basso» - a un certo punto ha un moto di insofferenza verso la visione troppo cupa della Ginestra. Si conclude, dopo una breve parentesi finale a Napoli, con il funerale di Leopardi fra teschi e candele, quando un monatto scarica nella fossa comune i suoi poveri resti che portava in spalla. Infine Pasquale recita un monologo, in dialetto, in cui immagina Leopardi che si rivolge a Dio: «Ti ho bestemmiato ma non ti ho mai cercato». Ora, che nell’ateismo così radicale di Leopardi peraltro qui sottolineato - fosse nascosta una cellula di tremante religiosità, o almeno di «teologia negativa», è questione certo opinabile. Potremmo però concludere così: da una parte il nichilismo intransigente di Leopardi si addolcisce nel canto (la sua poesia è disperata, mai disperante: in quanto poesia è passaggio della gioia, amore per la vita). Dall’altra il suo bisogno di assoluto non si placa nelle ideologie del suo tempo o nelle ingannevoli utopie della politica: resta lì, drammaticamente irrisolto, inappagato, e anche misteriosamente aperto sull’infinito, sul cielo stellato e sulle rispondenze segrete del linguaggio poetico.