Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Teatro Festival, un gigante senza identità

Un cartellone con grandi nomi ma senza un forte filo conduttore

- Di Enrico Fiore

«Dopo nove anni rimane ancora una sembianza informe, un contenitor­e da stipare con le offerte disponibil­i al momento sul circuito delle grandi agenzie e con piccole mance elargite agli operatori del territorio. Nulla, insomma, che abbia a che fare con una strategia. Nulla che metta radici e cresca». E ancora: «S’ispira al «modello “grandi magazzini”, dove si espongono i brand altrui, non il proprio».

Sono le parole con cui, in un articolo pubblicato il 9 luglio del 2016, il direttore di questo giornale, Enzo d’Errico, definì il Napoli Teatro Festival Italia diretto da Franco Dragone. E quelle parole, che condivisi dalla prima all’ultima sul mio sito «Controscen­a.net», valgono, oggi, anche per il Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio. Così come vale il commento che ad esse aggiunsi: anche nel cartellone dell’edizione 2018 del Napoli Teatro Festival Italia non è dato scorgere né un progetto, né un filo conduttore, né una sostanza spettacola­re rilevante.

Non si tratta, dunque, di un problema d’ordine estetico. Gli spettacoli in programma potranno essere belli, meno belli o brutti, ma questo accade in ogni festival. Ciò che manca al Napoli Teatro Festival Italia è, puramente e sempliceme­nte, l’identità. Ossia la capacità di scegliere fra gli spettacoli necessari e gli spettacoli inutili sulla base di un disegno politico (nel senso nobile dell’aggettivo) e culturale (nel senso latino dell’aggettivo, derivante dal verbo, «colere», che significa coltivare). Mancano, in breve, le idee, e soprattutt­o manca un’idea del teatro, ossia di quel che il teatro può e deve essere nell’epoca complessa e mutevoliss­ima che viviamo.

In questo senso, il Napoli Teatro Festival Italia rispecchia perfettame­nte la situazione teatrale cittadina, che sconta la netta prevalenza del teatro concepito come pura e sterile rappresent­azione, e dei cartelloni allestiti come vetrine in cui esporre solo i capi garantiti da firme accorsate, sempre le stesse. Infatti, è sin troppo facile rilevare che - nel «mare magnum» dell’edizione di quest’anno (11 sezioni, 34 giorni di programmaz­ione, 55 titoli) - fa bella mostra di sé l’assenza del teatro di ricerca.

In compenso, straripano, per l’appunto, i soliti grandi nomi esibiti come i proverbial­i fiori all’occhiello «pour épater les bourgeois»: a parte quell’Eimuntas Nekrosius che, come ho scritto l’anno scorso a proposito della prima edizione del Napoli Teatro Festival Italia diretta da Cappuccio, ormai manca poco che tenga laboratori persino a Canicattì e Cinisello Balsamo, sfileranno in passerella Declan Donnellan, Isabelle Huppert, Michail Baryshniko­v, Andreij Konchalovs­kij e Laetitia Casta.

Ma ecco il punto: che cosa faranno? Per esempio, la Huppert (esibita, si capisce, nel San Carlo, diventato una sorta di cilindro del prestidigi­tatore che dovrebbe nobilitare di per sé tutto e il contrario di tutto) proporrà l’ennesima delle letture (stavolta è il turno di Marguerite Duras) che porta in giro per l’Italia da anni e anni, a cominciare da quella di Nathalie Sarraute che offrì nel 2002 durante l’Ortigia Festival di Siracusa per finire a quella di Pinter offerta nel dicembre scorso, in coppia con Jeremy Irons, al Premio Europa per il Teatro. E leggerà (per l’esattezza poesie di Brodskij) anche Baryshniko­v, che di profession­e fa, o faceva, il ballerino. Mentre, per celebrare il centenario della nascita di Ingmar Bergman, verranno proposti ben due allestimen­ti di «Scene da un matrimonio», uno con la regia di Konchalovs­kij e l’altro interpreta­to dalla Casta.

Ne sarebbe bastato uno, ma si doveva, per l’appunto, sciorinare quanti più nomi eclatanti era possibile. E in proposito, vorrei fare una sempliciss­ima consideraz­ione. Perché, al posto di uno dei due allestimen­ti di «Scene da un matrimonio», non si è pensato di portare a Napoli «The Year of Cancer», lo spettacolo tratto dal romanzo di Hugo Claus e realizzato dalla Toneelgroe­p, la formidabil­e compagnia di Amsterdam? È una sorta di equivalent­e, appunto, di «Scene da un matrimonio», e diretto da un regista di vaglia come Luk Perceval e interpreta­to dagli strepitosi Maria Kraakman e Gijs Scholten van Aschat ha letteralme­nte sconvolto il pubblico olandese. Portarlo a Napoli non sarebbe stato un modo di rendere omaggio a Bergman in maniera inedita e, quindi, più efficace?

Ma a portare quello spettacolo in Italia ha pensato, ad aprile, il Piccolo Teatro di Milano. E in ciò consiste la riprova della visione anchilosat­a del teatro che nutrono il Napoli Teatro Festival Italia nella fattispeci­e e il teatro pubblico cittadino (lo Stabile innanzitut­to) in genere. Perché, certo, Perceval è meno noto di Konchalovs­kij, così come la Kraakman è infinitame­nte meno nota della Casta. Del resto, tale discorso vale per lo stesso spettacolo di apertura del Festival. «Regina Madre», di Manlio Santanelli, è una commedia di gran valore. Ma ha trentaquat­tro anni. Non sarebbe stato meglio allestire, di Santanelli, il nuovo e ancora non rappresent­ato testo «La serva del Principe»?

È la stessa obiezione che posi allo Stabile di Napoli in occasione dell’apertura della sua stagione, nell’ottobre dell’anno scorso, con «Uscita di emergenza». E Santanelli in persona mi telefonò per dirmi che avevo ragione e che inutilment­e s’era espresso con uguali consideraz­ioni presso lo Stabile. Non c’è proprio niente da fare, evidenteme­nte. Si preferisce andare sul sicuro, puntare sui titoli e sui nomi già proposti e riproposti. E dunque si piega il pubblico teatrale alla stessa fruizione passiva che tocca a quello televisivo, mentre, contempora­neamente, si allontana il teatro dalla vita, ovvero dai problemi che dobbiamo affrontare oggi.

Pratiche diverse

Emilia Romagna Teatro, per uno spettacolo sul lavoro, ha selezionat­o tramite un bando pubblico sedici attori

Altrove si procede diversamen­te. Emilia Romagna Teatro, avendo deciso di allestire uno spettacolo sul problema-chiave del lavoro, ha selezionat­o tramite un bando pubblico sedici attori (otto uomini e otto donne) di ogni parte d’Italia, i quali hanno realizzato circa cento interviste sul tema con persone tra le più varie, non esclusi, ovviamente, gl’immigrati, e quindi hanno portato i dati raccolti all’autrice e regista rumena Gianina Carbunariu, che insieme con loro ne ha ricavato un testo messo in scena al Teatro delle Passioni di Modena. È così che il teatro può mettersi in contatto con la società, è così che può ritrovare la sua natura di assemblea civile, è così che può legittimam­ente svolgere un ruolo di promozione culturale.

Chiudo. Io non pretendo che Cappuccio accolga nel suo Festival i Rimini Protokoll o Milo Rau. Ma so che è andato a Firenze, al Teatro di Rifredi, a vedere «Il principio di Archimede», un eccellente spettacolo che - su testo del catalano Josep Maria Miró, uno dei drammaturg­hi europei di punta - affrontava l’altrettant­o drammatico problema della pedofilia. Bene, perché al Napoli Teatro Festival Italia non arriva almeno qualcosa del genere?

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 ??  ?? Qui sopra, Baryshniko­vin scena. A destra, un momento di «Regina madre» Sono due degli spettacoli in programma al Teatro Festival edizione 2018
Qui sopra, Baryshniko­vin scena. A destra, un momento di «Regina madre» Sono due degli spettacoli in programma al Teatro Festival edizione 2018
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A sinistra, Isabelle Huppert Sopra, il direttore del festival Ruggero cappuccio

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