Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Adolescenza a fumetti Prime pulsioni e «vecchi alibi»
Per alcuni mesi sono stato seriamente ammalato, verso i tredici anni. Costretto a letto, per non morire di noia dovevo fantasticare. Per poterlo fare avevo bisogno di leggere storie (la mia testa funzionava come una caldaia; i racconti servivano da carbone).
L’ultimo dei Mohicani mi commosse; la morte di Uncas e Cora, mi fece versare le lacrime migliori, le più pure. Milady de Winter, la dark lady de I tre Moschettieri, mi turbò in quanto fascinosa manipolatrice capace di plagiare l’anima di un maschio asservendola al Male (concetti che quanto più risultavano indefiniti, tanto più mi attraevano). Delle quattro guardie del Re, Aramis era il mio preferito: colto, raffinato, di natura malinconica irrisolta fra cielo e terra. Un dandy ante litteram ferrato in teologia, un vero snob. Athos, conte de La Fère ed ex marito di Milady, lo compiangevo per quel suo atroce pallore da uxoricida (solo molto dopo, per fortuna, avrei appreso che: 1) si ferisce sempre chi amiamo; 2) solo chi ci ama può ammazzarci davvero).
Vent’anni dopo, ancora Dumas, mi fece tristezza, con quel trascorrere del tempo a blocchi di decenni. Il che mi indusse a migrare, almeno per un po’, verso i fumetti. Nel loro universo narrativo, i protagonisti dei comics erano esentatati dall’invecchiare, oltre ad essere praticamente invulnerabili. Di fatto si trattava di creature immortali, schiettamente mitologiche.
Mia madre, che da sempre tendeva ad accontentarmi in tutto, fu felice di viziarmi nella nuova passione. Credo che lei vivesse questo esaudire i miei desideri di ammalato come un risarcimento. Verso di me, in primo luogo, ma anche verso la propria sofferenza di incapacitata a rimettermi in salute con la sua sola buona volontà (convalescenza e terapia dovevano seguire il loro corso, indifferente come quello di un fiume).
Viziarmi significava procurarmi tre, quattro albi alla settimana. All’occorrenza mamma si spingeva fino ad una rivenditaspelonca, per scovare dei numeri arretrati. Inutile dire che questi giornalini di seconda mano venivano disinfestati, da lei, come nemmeno le suppellettili di un lebbrosario.
Si ammucchiarono così, sul copriletto di ciniglia, Capitan Miky, un ranger sessualmente anfibio con il tirabaci alla Macario; Black Macigno, muscolare trapper della Guerra d’Indipendenza americana vestito solo con un gilet di castoro a pelle, perfino negli inverni nevosi del New England.
Dell’Uomo Mascherato ricordo un episodio in cui il protagonista veniva irretito dalle Amazzoni, spettacolose fanciulle con i seni traboccanti dalle coppe, la pelle bianca come il talco e i capelli fluenti. Erano tutte in succinti due pezzi leopardati. Fu un imprinting erotico che predeterminò il mio favore verso la lingerie volgare e sfacciata: l’animalier che fa dimenticare l’uomo civile e lo animalizza a dovere. Zagor, lo Spirito-con-la-scure bello come un divo, godeva di una certa libertà narrativa potendo combattere con vampiri, lupi mannari, Vichinghi. Per di più in un’ambientazione di sabbie mobili, foreste che sembravano celare, a ogni passo, atti spaventosi e oscuri.
La mia predilezione, però, andava senza riserve alle ristampe de Il Principe Valiant. Una figura di cavaliere da ciclo bretone che campeggiava sopra un affresco tra storia e mitologia. Una frangia di ultrastoria fra caduta dell’Impero romano, saga di re Artù e Tolkien.
I temi iconografici? Rocche, tornei; risate fragorose e crude nei banchetti di corte; sottoboschi popolati da creature mezzo divine, mezzo bestiali. La qualità figurativa era fuori discussione; in alcune tavole la rifinitura degli insiemi appariva ai limiti del virtuosismo. Su di esse potevo trascorrere — animando il disegno, sovrapponendovi una colonna sonora tutta mia — ore.
Poi, un certo giorno, percepii del trambusto oltre la parete. La sua voce, quella parlata da scuole internazionali. Poliglotta fin dalla nascita: Rebecca (Becca) Arnaud, la nipote del Console. I convenevoli con cui mamma, compiaciutissima, la stava vezzeggiando... Lei stravedeva per gli Arnaud senza ritegno; ne subiva la signorile mancanza di classismo. Becca Arnaud, di solo un anno più grande, era venuta a trovare me? O l’avevano spedita i suoi con una di quelle attenzioni, appena appena condiscendenti, che gli Arnaud riservavano a mia mamma? Era mia amica o solo in missione diplomatica?
«Vai dentro: gli fai piacere», dalla galassia dei ricordi preado- lescenziali mia madre che invoglia Becca, «Poverino: se ne sta solo tutto il santo giorno».
In realtà non ero mai solo, mamma. Come un rapace mi impossessavo degli eroi di carta involandoli ai loro creatori. Quindi, fra le coltri del nido-letto, covavo per mio conto le loro avventure da cui se ne schiudevano altre, del tutto originali. Spesso le mie reinvenzioni, in modo francamente autobiografico, avevano a che fare con problemi di salute. Zagor, negli acquitrini, si era beccato la malaria (esisteva il chinino, all’epoca?).
Il Principe Valiant, durante una di quelle gozzoviglie posttorneo, aveva preso la tenia. Capitan Miky, invece, aveva dovuto subire (quando si dice il vittimismo…) un’ingiusta degradazione, davanti alla guarnigione schierata, come il suo contemporaneo e pari grado Dreyfuss.
Ad onta di tutto questa mia innata cupezza, Becca Arnaud si manifestò sulla soglia della cameretta come un raggio di sole. Era di ascendenza svizzera, con una corposa bocca napoletana. Aveva i capelli color miele e le guance brune. Gli occhi, colore dell’ambra, come l’ambra contenevano tutta la storia della Terra. Nulla sfuggiva al suo sguardo dall’alto in basso.
«Leggi ancora questa roba?», brusca, per camuffare l’imbarazzo. I fumetti erano roba da maschi, dunque da sottosviluppati. Ciò nonostante si degnò di prendere in mano uno Zagor. L’eroe, in copertina, era aggrappato ad una liana, la muscolatura turgida nello sforzo. Sbigottito, vidi Becca lisciare la copertina; ripercorrere con un dito, simile a una lingua che leccasse, la figura eccezionalmente armoniosa e i calzoni attillatissimi di Spirito-con-lascure. Mezzo ottenebrato da un desiderio senza nome, le allargai lo scollo del maglioncino (soltanto una bretellina color carne sotto, nulla di maculato). Lei mi guardò con dolcezza, come se fossi un idiota (esatto!). Poi mi ricollocò a letto, rimboccandomi per sempre le coperte.
Ora che Becca e mia madre non ci sono più, so che bisogna raccogliere i cocci e che tutto si aggiusta. Nulla, però, tornerà come prima. Alcuni gesti sono per sempre. Altri gesti sono dei mai più.