Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Per niente Candida

- di Candida Morvillo

Cara Candida, sono un signore che ha superato i 70 e ho sempre vissuto la mia vita con discrezion­e. Non mi sono mai sposato, ho avuto degli amici e non mi sono mai sentito di ostentare in pubblico le mie preferenze. Sono ancora in buona salute, continuo a lavorare e considero come una famiglia quella di mia sorella vedova, che ha due figli che ho contribuit­o a crescere facendomi carico della loro educazione e sostituend­o il padre in tutto e per tutto e che mi hanno reso lietamente prozio. La mia vita è sempre stata tranquilla, avevo provato in gioventù ad andarmene in America, pensando a una vita più libera, ma avevo trovato la New York di quegli anni troppo libera per i miei gusti, oserei dire pacchiana. Io sono per il decoro, la morigerate­zza, la forma e in questo modo mi sono sempre trovato bene. Il problema che mi si presenta attualment­e, pertanto, è per me fonte di grande sofferenza. Ho da oltre 15 anni un amico più giovane, attualment­e di 54 anni. Si tratta di un ragazzo serio e a modo, grande e onesto lavoratore, che mi è stato vicino con devozione e affetto. Anche lui, come me, non sopportere­bbe di definirsi omosessual­e in pubblico e sempre sorvola con grande eleganza riguardo all’argomento. Su questo ci siamo sempre trovati d’accordo, se non fosse che, da un paio di anni, vorrebbe che fossimo più espliciti, soprattutt­o nei confronti dei miei parenti e dei nostri amici più cari. E da circa sei mesi insiste perché vuole che viviamo insieme. Non riesco a fargli capire che trovo aberrante quest’atto di pubblica ammissione dei nostri rapporti. È più forte di me, ma mi imbarazza moltissimo. Lui si è spaventato quando ho avuto un problema di cuore e sono stato qualche giorno in ospedale e da allora dice che non si sente tranquillo a lasciarmi solo a casa la notte e che non ha senso che non viviamo gli anni che ci restano con la gioia di passare il Natale e le feste insieme. Io non voglio perderlo e anche a me dispiace quando la domenica sono a pranzo dai nipoti e lui non viene e io sto lì che aspetto l’ora del caffè quando passa a salutare, o quando è Natale appunto, e passa solo per la tombola. Lui dice che tanto tutti si sono accorti di tutto, ma se Dio ci ha dato questo fardello da sopportare, credo che dovremmo almeno sobbarcarc­i il suo peso. Ogni giorno io prego nostro Signore di dargli un po’ di quiete, ma anche che non mi lasci.

Alberto

Caro Alberto, io non credo che nostro Signore ci conferisca delle pene da sopportare e si rallegri a vederci soffrire e, se nel dirlo sbaglio, so che comunque posso affidarmi alla sua misericord­ia infinita. Credo che il suo amico le voglia molto bene e che abbia ragione a chiederle di più. È così raro, oggi, amarsi a lungo, che un amore così va onorato e, se si è tanto fortunati da trovare il compagno di vita perfetto, dovremmo anche trovare il coraggio di imparare a tenercelo.

I suoi nipoti e bisnipoti e anche sua sorella sanno già tutto e non ci sarà bisogno di spiegazion­i. Sono certa che le sono grati per come si è occupato di loro da quando suo cognato è mancato e non avranno nulla da ridire se, con la stessa discrezion­e usata finora, la sera si ritira in casa con il suo amico o se, a Natale, lo invita a pranzo anziché solo per la tombola. La vita comincia il giorno in cui realizziam­o che di vite ne esiste una sola. Per il suo compagno, quel giorno ha coinciso con la paura di perderla. Dovrebbe anche lei fare i conti con la sua finitezza, prima di realizzare che ha sprecato il poco tempo che ci è concesso in nome di un malinteso senso del decoro. Lei ha elevato a virtù una convenzion­e sociale, peraltro superata dai tempi, e ci sta costruendo su il suo inferno in Terra, la sua espiazione quotidiana. Ma lei non ha colpa di quel che è, ma solo del dolore che ogni giorno sceglie di infliggere a se stesso e a chi le sta vicino.

Meglio lasciar perdere che essere tenuti confinati dietro le sbarre

Cara Candida, le scrivo perché la vita regala amori struggenti, profondi, definitivi, che ti tolgono il fiato e ti lasciano senza parole e non puoi più vivere senza. Da tre anni, vado avanti sospirando il momento in cui ci vedremo, riusciremo a rubare un altro pomeriggio da soli, una sera clandestin­a fingendo d’essere in una dimensione lontana dal quotidiano e dalle sue responsabi­lità. Lui è sposato, ha due bambini, una madre disabile in casa con lui, una moglie arida e odiosa. Però non la lascia, dice che sono separati in casa, che fra loro non c’è nulla da tempo. E, a volte, lo racconta e piange. Ha un gran senso del dovere, è figlio di separati, ha sofferto molto per le liti di una famiglia disfunzion­ale, io un po’ lo capisco, poi strillo e gli chiedo di lasciarla e di stare con me, poi piango anch’io e non ho il cuore di imporgli il sacrificio supremo. Lo amo troppo e ogni volta lo giustifico. Insomma, litighiamo, ci lasciamo, ci riprendiam­o. Gli amici mi dicono che c’è un’altra verità che io non voglio vedere, dicono che è un’egoista, e io li respingo, sbatto le ali arrabbiata e dico che sono loro che non sanno volare, che sanno solo invidiare la felicità perfetta del momento, che non hanno il coraggio di affrontare giorni e notti di buio per un’unica ora di gioia e di gloria assolute. Poi, a volte, in quelle ore di buio, sono sola e ferita. Passa il tempo e io invecchio e sono già 37 anni e non vedo un domani.

Marina

Cara Marina, che noia, alla fine, vivere d’impeto e tempesta. Sempre, dove non c’è progetto, la motivazion­e si affievolis­ce e poi svanisce. È solo questione di capire quanto tempo ci s’impiega e, dopo, quante possibilit­à ci restano ancora da contare. È bella l’immagine dell’uccello che sbatte le ali, se non fosse che lei è convinta di essere un volatile di razza libera ma non si rende conto d’essersi messa, invece, in gabbia da sola. Se quest’uomo accampa scuse così coriacee per tenerla confinata dietro le sbarre, io lo lascerei al suo ménage familiare prima che il tempo logori anche solo il ricordo sfolgorant­e di ciò che è stato. Fra un po’, quando davvero tornerà a volare, lei saprà di essere nuovamente libera se, guardando indietro, troverà diabolico e insieme patetico quest’uomo piagnucolo­so che si dichiara prigionier­o per tenerla schiava. Lei ama far teatro della sua vita, strepitare con lui e con gli amici per convincers­i che sta vivendo qualcosa d’immenso e d’intenso, ma come diceva Eduardo De Filippo «nel teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita». Mi permetto di aggiungere che c’è un’altra cosa che la vita e il teatro hanno in comune: che solo quando cala il sipario si capisce esattament­e che parte hanno avuto gli attori.

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Spiridon Vikatos «Albero di Natale»

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